capitolo sessantanove

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Alice.

Era sparito.
Non c'era nessuno.

Per un attimo pensai che la mia mente mi avesse giocato un brutto scherzo; ma mi ricredetti quando spostai lo sguardo al portone del condominio difronte a me, e sopra ci vidi attaccato il biglietto, coperto da una grondaia.

Lo strappai furiosa e tentai di ripararmi dall'acqua.

Ancora quei maledetti numeri:

141514415225229.
131519191192171291202113215129141.

l'aria mi venne a mancare quando all'angolo del biglietto, vidi quella che sembrava una chiazza di sangue che si espandeva man mano per tutto il foglio.
Mi affrettai a stapparla via, prima che coprisse i numeri.

Continuai a guardarmi intorno, nella speranza di adocchiare anche solo una persona simile a quella sagoma.
Sembrava essere sparita, perfino le strade sembravano essersene dimenticate.

La testa aveva preso a farmi male e a girare, dovetti sorreggermi al pomello del portone per non cedere con le gambe.

«Signorina, va tutto bene?» un uomo mi afferrò saldamente per il braccio quando mi sentii venire meno.
Mi sostenne, mentre cercò di non far cadere una serie di documenti incastrati sotto al braccio.

«Sì...» boccheggiai nel tentativo di recuperare anche quel poco di ossigeno che mi era rimasto incastrato infondo ai polmoni.
Tentai di riacquistare lucidità e mi scostai dalla presa dell'uomo, dagli abiti eleganti e raffinati.
E il rolex che gli luccicava al polso, ne era la prova.

«Papà, forse sta male» disse un bambino di poco più nove anni. Mi osservava con gli occhi sbarrati e le sopracciglia incurvate dalla preoccupazione.
Gli sorrisi per rassicurarlo

«Jonathan, vai in macchina, ti ammalerai», come calamitato, il mio sguardo si catapultò sul l'uomo per poi ricade sul bambino e feci questo un paio di volte, fino a quando le corde vocali non presero a funzionare regolarmente.

«Ti chiami Jonathan?» chiesi scossa, come se non fosse un nome comune.

No. per me non lo è.

I due mi guardarono come se fossi una pazza e il bambino accennò ad annuire appena

Presi un lungo respiro, nel tentativo di riaccumulare l'ossigeno mancato

Sfoderai un piccolo sorriso e chiusi gli occhi, prendendomi cinque secondi per riprendermi

«È un bel nome», dissi solamente e lui mi ringraziò.
«Ha bisogno di un passaggio?» si preoccupò l'uomo.

Ormai era passata l'ora di cena e il cellulare mi si era spento.
Sarei potuta tornare sopra da Arianne, ma mi avrebbe sottoposto ad un interrogatorio e le avrei dovuto dire dei biglietti.

«Non vorrei disturbare» strinsi i denti.
Non potevo neanche chiamare un taxi come avevo fatto all'andata.

«No, Tranquilla. Venga pure» mi invitarono a seguirli fino ad una Mercedes di ultimo tipo nera.

«Abita qui vicino?» chiese facendo prima salire il figlio per poi mettersi al mio fianco.
Accese l'auto e partimmo.

«Circa venti minuti».

Gli diedi le indicazioni

«Ma è la figlia di Alberth Morgan?» chiese riconoscendo la via.
Si allungò per accendere il riscaldamento, mentre fissava la strada buia.

La pioggia continuava a battere continuamente contro il parabrezza.

«È il compagno di mia madre» spiegai brevemente.
«Posso chiederle che ci faceva in mezzo alla strada sotto alla pioggia?», domandò dedicando uno sguardo al figlio che stava giocando con un dinosauro dietro al mio sedile.

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