capitolo ottantaquattro

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Mason.

Aspettammo tutta la notte all'ospedale.
Dana non si dava pace e continuava a camminare avanti e indietro nel corridoio del reparto.
C'eravamo tutti, ma nessuno parlava, ogni tanto Liam doveva allontanarsi per riprendere aria e per fumarsi una sigaretta, invece io non ricordavo neanche l'ultima volta che ne avevo toccata una.
Non volevo allontanarmi da quella stanza, nonostante la mia voglia di fumare stava arrivando al limite della sopportazione.

Finalmente dopo circa quattro ore, qualcuno iniziò a vedersi.
Uscì un uomo con un camice bianco e Dana gli andò incontro. Io la raggiunsi.

«Voi siete i familiari?», chiese e notai come abbassò lo sguardo rammaricato.
Il cuore mi salì in gola e riuscì solo ad annuire.

«Come sta? La prego mi dica qualcosa», pregò Dana con voce tremante.
Senza rendermene conto, anche Arianne ci aveva raggiunti.

«Ha perso troppo sangue...», lo stronzo prese a fare un giro di parole immenso ed io già non lo tolleravo più.

«Arrivi al dunque» sputai acido e lui sospirò.
«Abbiamo provato a farle una trasfusione... abbiamo riscontrato problemi anche durante l'intervento. Il proiettile era entrato in profondità», ad ogni sua parola lo stomaco mi saliva in gola e il cuore smetteva di battere.

«Questo che significa?», singhiozzò Dana mentre si aggrappò al braccio di mio padre, che stava ascoltando attentamente.

«Era giorni che non mangiava, era priva di forze...»
«Era? Che significa?», senza rendermene conto avevo preso a tremare e la voce mi si era alzata.
Avanzai verso l'uomo, ma venni afferrato da dietro da mio padre.

Lo fulminai amaramente poi tornai con lo sguardo al chirurgo.

«Le possibilità che si salvi sono veramente basse. Non ci resta solo che pregare. Pregare che superi almeno la notte», smisi di ascoltarlo, perché ora mi stavo fiondando fuori da quella merda di posto.
Il respiro mi si mozzò, la mente mi si era offuscata.

Una volta fuori mi accesi una sigaretta mentre sentivo i polmoni comprimersi.

«Mason», alle mie spalle si fece vivo Eden.
Aveva le spalle ricurve e lo sguardo rammaricato.

Gli dedicai un'occhiata veloce poi tornai con lo sguardo perso nel vuoto.

Non potevo perderla.
Lei doveva vivere, anche senza di me.
Doveva diventare una fashion designer, doveva avere dei bambini e meritava la famiglia che le era sempre stata negata.

«Mason, mi stai ascoltando?», Eden attirò nuovamente la mia attenzione.
Alzai lo sguardo su di lui

«Devo dirti una cosa», si morse nervosamente l'interno guancia, segno che aveva combinato qualcosa.

Non potevo occuparmi dei suoi casini personali.

«Ascolta Eden. Ne parliamo un altro giorno. Non posso aiutarti», buttai il mozzicone di sigaretta e feci per rientrare, ma lui mi si piazzò davanti.

«Non riguarda me. Solo che... ti ho nascosto una cosa»
«Parla allora», lo invitai già con i nervi tesi.

«Me l'ha chiesto Alice di non dirti niente»
«Eden, cazzo. Parla», lo ammonii. Non ero in vena di giri di parole.

Lui sembrò ragionare su come formulare parola per parola, poi sospirò e iniziò.

«Una mattina Alice era venuta a casa mia, con quei biglietti anonimi», ora sì che lo stronzo aveva tutta la mia attenzione.

«L'aiutai a capire cosa ci fosse scritto e capimmo che erano minacce. Volevo dirtelo, ma lei mi ha fatto giurare che...», non finì neanche di parlare, perché gli assestai un pugno che lo scaraventò a terra.

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