Eighty Fourth Shade [R]

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Tre giorni erano trascorsi senza che nessuno tentasse di discutere di Leah con Damon.

L'uomo ne era felice: tutto quel gran parlare dei suoi ipotetici sentimenti che i suoi migliori amici avevano fatto non era servito che a renderlo tremendamente nervoso. Ormai aveva timore di qualunque cosa riguardasse la biologa: vederla, parlarle o anche solo sentirne parlare gli irritava i nervi in un modo che non avrebbe mai creduto possibile. Ovviamente Leah non ne aveva colpa... ma questo non cambiava ciò che Damon provava: soltanto se l'avessero finalmente lasciato in pace, permettendogli di rimettere ordine nella propria testa e nel proprio cuore, avrebbe potuto ricominciare a guardare la biologa per quello che era: una sua amica d'infanzia e la madrina di sua figlia, e nulla di più.

Certo, una vocina, dentro di lui, gli sussurrava che non era proprio così; che stava mentendo a tutti con scarso successo, e a se stesso con risultati disastrosi; ma l'altra parte di lui, quella terrorizzata alla sola idea di poter perdere Leah, ogni volta replicava vigorosamente, facendogli preferire l'opzione più semplice: tenere la bocca chiusa e lasciare che tutto restasse com'era. Neanche il pensiero che un giorno Leah avrebbe potuto innamorarsi – magari proprio di quel Matthew di cui parlava tanto, e la cui sola menzione bastava a metterlo di cattivo umore – poteva smuoverlo da quell'apatia scelta in totale consapevolezza: non aveva intenzione di rischiare. Punto.

Un sorriso un po' amaro gli stirò la bocca mentre si chiedeva se, nei mesi passati, anche Richard avesse convissuto con quella stessa battaglia interiore che lui stava sperimentando in quelle ultime settimane. Probabilmente era stato così; ricordava bene come il suo migliore amico fosse stato d'umore instabile per lunghi periodi, cupo e poi esaltato apparentemente senza alcuna ragione. Ora che si trovava – più o meno – nella stessa situazione, Damon iniziava a capirlo. Il timore e l'incertezza potevano far diventare pazzo il più razionale degli uomini; e se aveva sempre creduto che il matrimonio con Vivienne, burrascoso e fragile sin dal primo giorno, fosse il peggio, adesso che si trovava a lottare non contro un'altra persona, ma con se stesso, non poteva non ricredersi.

La porta d'ingresso si aprì e dopo pochi momenti Richard fece la sua comparsa in cucina, distogliendo il padrone di casa dai propri pensieri.

«Come mai qui?» chiese Damon a mo' di saluto.

L'altro scrollò le spalle; si sfilò la giacca e sedette al tavolo di cucina, allungando le gambe davanti a sé. «Mi ero stufato di stare chiuso in casa mia: Agathe ha da studiare e ci vediamo poco, e io non ho nessuna voglia di fossilizzarmi sui bilanci dell'agenzia di assicurazioni».

Damon lo guardò comprensivo. «Sai che comunque presto o tardi li dovrai controllare, vero?»

«Lo so, ma preferisco non pensarci e procrastinare finché posso» grugnì Richard.

Il suo migliore amico gli lanciò uno sguardo sardonico; poi, suo malgrado, sorrise. «Stare con Will ti fa bene: non ti ho mai visto trascurare un po' il lavoro senza essere divorato dai sensi di colpa».

«Stai dicendo che sono vecchio dentro?» replicò Richard.

«Sto dicendo che stai diventando più elastico: con vent'anni di ritardo, è vero, ma è sempre meglio di niente» rispose Damon.

Lo storico sorrise. «Forse sono troppo vecchio per comportarmi come un ragazzino».

«Nah» replicò l'altro. «Non si è mai troppo vecchi per ricordarsi di essere giovani e divertirsi: che sarebbe la vita, senza un pizzico di follia?»

«Tranquilla e gestibile?» tentò Richard.

«Piatta e noiosa» ribatté Damon. «In ogni caso, vedo con piacere che ti è passata l'ansia dell'altro giorno».

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