Cap 3

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Passarono i mesi e io ero una bambina esattamente come le altre: piangevo, mangiavo, crescevo, mi disperavo se venivo lasciata da sola. Di notte, non dormivo mai. Ma questo lo fa un bambino piccolo su due. L'unica differenza tra me e gli altri bambini era che visitammo parecchie volte l'ospedale e cambiammo un sacco di medici, fino a che, un bel giorno, e qui arriva il lieto fine tanto atteso, che la mamma adora, un altro neurologo si toccò i baffetti, guardò me e i miei genitori, poi sentenziò: «La bambina ci vede».

 L'unica differenza tra me e gli altri bambini era che visitammo parecchie volte l'ospedale e cambiammo un sacco di medici, fino a che, un bel giorno, e qui arriva il lieto fine tanto atteso, che la mamma adora, un altro neurologo si toccò i baffe...

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«Hai sentito! Ci vede!», urlò la mamma, gettandosi al collo del papà.

Ero anche io come gli altri. Ci vedevo. Ecco, di solito il racconto della mamma termina qui. Io invece voglio dirvi anche come proseguì il dottore. Posso solo immaginarmelo, perché io non c'ero, ma di certo fu in quell'occasione che qualcuno pronunciò la parola acromatopsia per la prima volta davanti a noi. E' difficile spiegare a una persona che non soffre di una certa malattia cosa sia questa malattia.
Pensate ai daltonici. Anche loro hanno qualche problema con i colori. Il dottore probabilmente disse alla mamma e al papà che la mia era senza dubbio un'acromatopsia congenita, che mi portavo dietro dalla nascita, e che in Italia, probabilmente, ne soffrono circa duemila persone. Siamo in pochissimi. Disse anche, senza dubbio, che avrei dovuto portare degli occhiali speciali, per proteggermi alla luce del giorno, e che avrei sempre avuto una ridotta capacità visiva. Sono quasi sicura che la mamma abbia ribattuto con un sorrisetto teso: «Ma ci vede». Però non ho mai avuto la curiosità di chiederglielo.

Io non so come spiegarvelo, ma per tutta la mia infanzia, il fatto di non vedere i colori non era un problema mio. Era un problema degli altri. Quando nasci senza una cosa che hanno tutti, non ti manca. Sono le altre persone, che ti fanno notare quanto sei sfortunata. E da bambina, non ti interessa davvero degli altri. Il mio mondo in bianco e nero mi bastava. Amavo le ombre che si creavano sui volti degli altri.

 Amavo le ombre che si creavano sui volti degli altri

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Per me tutto si riduceva a chiaro o scuro. Semplice, no? Per lungo tempo, ho sempre avuto la certezza che con i colori la vita fosse più complicata. All'asilo, i miei compagni dovevano fare dei giochi strani, come mettere dei cubi nei buchi di un castello di plastica. Le maestre applaudivano solo se azzeccavano il buco giusto. Io ero esonerata da questo gioco, ma ricordo che quel giorno, sentii nominare per la prima volta il giallo, il verde, il rosso, il blu. A casa mia, nessuno li nominava mai. All'asilo avevo un solo amico: Paolo. Era anche il mio vicino di casa, la persona con cui passavo praticamente tutte le mie giornate. Paolo era riccioluto, bianchissimo di carnagione, e con delle evidenti orecchie a sventola. Paolo era il bambino più chiaro che avessi mai visto e mi piaceva perché era facile, per me, riconoscerlo. Splendeva in mezzo agli altri.

 Andavamo io e la mamma, a prenderlo, a casa sua, che era attaccata alla nostra, perché la sua, di mamma, non aveva mai voglia di portarlo all'asilo

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Andavamo io e la mamma, a prenderlo, a casa sua, che era attaccata alla nostra, perché la sua, di mamma, non aveva mai voglia di portarlo all'asilo. Stava sempre chiusa in casa. Fu Paolo a spiegarmi cosa fossero i colori. Non che ci capii granché, quel giorno.

Eravamo seduti sulla giostra dei cavalli, ma nessuno dei due aveva voglia di farla girare.

«Perché hai scelto il cavallo rosso? E' il tuo colore preferito?», mi chiese Paolo.

Io annuii. Non avevo la minima idea di cosa mi stesse dicendo, ma non volevo farglielo capire.

«Il mio è il blu. Sai perché?»

«Perché?»

«Perché è un colore da maschio»

«E qual è il colore delle femmine?»

Paolo ci pensò su un attimo, poi disse: «Il rosa».

Ne capivo sempre meno, ma chiesi: «E perché?»

Lui alzò le spalle. «Non lo so», rispose «è così e basta».

Per paura di annoiarlo, cambiai argomento.

Ma quella sera, a tavola, tra un cucchiaio di minestrina e un sorso di aranciata, saltai su a dire: «Il mio colore preferito è il rosso»

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Ma quella sera, a tavola, tra un cucchiaio di minestrina e un sorso di aranciata, saltai su a dire: «Il mio colore preferito è il rosso».

La mamma e il papà si lanciarono un'occhiata strana, e io sentii di aver detto qualcosa di sbagliato. 

SPAZIO AUTRICE

Dovevo dedicare un po' di tempo a Laura, prima di fiondarmi nella storia, per farvi capire che cos'è l'acromatopsia. Spero di non avervi annoiato!

Se questa storia vi sta piacendo, taggate almeno cinque persone che potrebbero essere interessate. Sto preparando dei gadget e sarò felice di mandarli a chi mi aiuterà a far conoscere la mia ragazza in bianco e nero. Un abbraccio a tutti.

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