Cap 60

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Quando mi stacco da lui, il latte è traboccato fuori dal pentolino.

«Merda», esclama Geo, recuperando quello che riesce.

Beviamo la cioccolata in silenzio, ma non smettiamo di guardarci negli occhi. Il suo sapore si confonde con quello del cioccolato. Mi lecco le labbra e non gli dico niente.

«Io ti aspetto», sussurro alla fine «ti aspetto. Non ho alcuna intenzione di lasciarti da solo»

Geo distoglie lo sguardo e sembra infastidito da questa mia frase

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Geo distoglie lo sguardo e sembra infastidito da questa mia frase.

«Laura, te l'ho già detto...»

«Non mi interessa. Non sto senza di te. Non ci penso neanche a lasciarti andare»

Mi viene di nuovo da piangere. Lui mi prende una mano.

«Sei così piccola...», sussurra.

Gli leggo un dolore negli occhi che nessuno può scacciare. Cosa ti è successo, Geo? Dove sei stato in questi giorni? Chi ti ha ridotto così? Dimmi che vedrò ancora il tuo sorriso. Dimmi che questa non è la fine.

«Forse è meglio che tu vada, adesso», mi dice «devo fare alcune telefonate»

Mi alzo e aspetto che mi abbracci, o che mi dia un bacio. Lui invece rimane seduto. Testone si struscia sul mio cappotto.

«Non mi saluti neanche?»

Geo mi guarda come se lo stessi torturando.

«Va bene. Me ne vado. Non mi farò più sentire», lo avviso, anche se temo di non riuscire a mantenere questa promessa. Poi, sulla porta, mi blocco, e la rabbia prende il sopravvento.

«Prima hai detto che questa era l'ultima volta che ci vediamo, per un po'», sussurro «io adesso ti dico: se mi lasci andare, questa è l'ultima volta che mi vedrai, per sempre»

Apro la porta. Lo sento sospirare. Attendo un secondo, poi la richiudo alle mie spalle. Sei ancora in tempo, Geo. Vienimi dietro. Testone miagola. Aspetto ancora. Geo non si alza. Inizio a camminare lentamente. Niente. Non verrà. Ha deciso di lasciarmi andare per sempre. Vorrei tornare dentro e dirgli che ho sbagliato, che si faccia come vuole lui, che posso aspettare. Vorrei dirgli che lo amo e che se anche lui prova lo stesso, qualsiasi difficoltà sia sopraggiunta, la affronteremo insieme. Ma non servirebbe a niente.

Inizio a piangere e le mie lacrime si confondono con il cielo grigio. Corro e piango e non ho voglia di tornare a casa. Vorrei rifugiarmi tra le braccia di una sola persona, in questo momento.

Quando arrivo davanti alla casa sull'albero, mi si accende una speranza: c'è la luce

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Quando arrivo davanti alla casa sull'albero, mi si accende una speranza: c'è la luce. Paolo potrebbe essere lì. Mi asciugo le lacrime e mi arrampico in fretta.

Abbasso la maniglia e mi accorgo che la porta è chiusa a chiave. Non lo facciamo mai. Se uno di noi è nella casa sull'albero, il patto è quello di lasciare aperta la porta.

«Paolo?», chiamo.

Nessuna risposta.

«Paolo, sei lì?», insisto «ho bisogno di parlarti»

Sento un mugolio leggero, come di animale ferito.

«Paolo?»

Tiro fuori la mia chiave, poi decido di aspettare ancora. Se si è chiuso dentro, è perché non vuole vedermi. Sono appena stata da una persona che non voleva vedermi e il risultato è che mi ha distrutto. Non accetterei un altro rifiuto.

«Sono solo preoccupata, dimmi che sei lì e che va tutto bene. Poi me ne vado»

Sento degli spostamenti all'interno della casa. Dopo un po', sbuca un foglietto da sotto la porta. E' il disegno di Superman con il cuore spezzato. Il fumetto dice: Sono qui. Sto bene, ma devo stare su Crypton ancora un po'. Scusami.

Una volta mi capitò di barricarmi da sola nella casa sull'albero. Avevo litigato con la mamma, perché non mi lasciava andare a giocare con le altre bambine: il sole di mezzogiorno era troppo forte. Avevo deciso di fare lo sciopero della fame, e Paolo era venuto a trovarmi. Non avevo aperto neanche a lui. Dopo un po', mi aveva passato il disegno di un supereroe sotto la porta. Mi aveva scritto: se non mangi tu, non mangio nemmeno io. Ci eravamo passati lo stesso foglio per tutto il pomeriggio, riempiendolo di scritte e disegnini di supereroi. Alla fine non gli avevo aperto, ma mi ero sentita meno sola. Frugo nella borsa e trovo una penna.

Se stai su Crypton, voglio esserci anche io, scrivo e gli passo il foglietto sotto la porta.

Sento che singhiozza forte. Anche io ho ancora voglia di piangere, ma vorrei farlo tra le sue braccia.

Mi ripassa il foglietto, e questa volta Superman ha l'aria affranta, mentre dice: Mi dispiace, ma questa volta devo fare i conti da solo, con i miei poteri.

Almeno non piangere, rispondo. Quando piangi, mi fai star male.

Cerco di disegnare un cuore ferito, ma mi viene un pasticcio, allora lo cancello. Io non ho la stessa abilità di Paolo, coi disegni.

Certe volte piangere aiuta, è la sua risposta. C'è un Superman in lacrime.

Non sapevo che piangessero anche i supereroi. Scrivo in fretta.

Mi arriva il disegno di una porta chiusa. Lo fanno solo se sono certi di non essere visti da nessuno.

Gli disegno una chiave e aspetto.

Sento che si allontana. Attendo un po', ma sono ore che prendo freddo per attendere gli altri. Busso alla porta.

«Paolo?», urlo «cerca di non dormire lì tutta la notte, altrimenti prenderai freddo».

«Va bene, mamma», mi risponde.

E non so come, ma so che adesso ha smesso di piangere e sta sorridendo.

E non so come, ma so che adesso ha smesso di piangere e sta sorridendo

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