4- riflessioni e gentilezze

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La mattinata la passiamo abbastanza in silenzio, dopo quella chiacchierata, se non per due domande essenziali: dove si trova il bagno?, possiamo andare in stanza che sono stanca?. Infatti di quella mattina passiamo due ore buone in stanza. All'una di pomeriggio ci avviamo in mensa, dove già alcuni ragazzi la invadevano, e ci sediamo ai posti di ieri sera, lui affianco a me. Circa venti minuti dopo tornano i nostri compagni di stanza dall'allenamento e Melody e Holly iniziano a raccontare della loro prima esperienza come pilote. Durante il pranzo però scopro anche molte altre cose, tipo che Travor e Brandon si conoscono da molto tempo, da quando hanno quindici anni e insieme, diventati appena maggiorenni, iniziarono un addestramento speciale per entrare della CIA. Ed stato lì che il loro rapporto si è ancor di più rafforzato. Lavorarono insieme per moltissimo tempo, in coppia, finché non si persero di vista per alcuni anni, a colpa di una missione e successivi trasferimenti. Si sono ritrovati in questo luogo tre anni fa, dopo circa due anni che non si vedevano.

Appena finito il pranzo, però, i ragazzi sono costretti ad andare di nuovo a lavoro, tranne per Travor che ovviamente deve rimanere con me.

<cosa desideri fare?> mi chiede gentile. Mi guarda con occhi che trasmettono serenità e sembra quasi che stia provando a leggermi dentro. Sento che qualcosa, dopo il dialogo che abbiamo avuto questa mattina, è cambiato. Lui sembra più sereno quando si rivolge a me e leggermente più aperto.

<non so... un giro fuori?> consiglio nella speranza di cambiare un po' di aria, ma vengo demoralizzata presto quando nega con il capo e dice che non posso assolutamente mettere naso di fuori in queste prime settimane. Io inizio ad alterarmi un po', perché anche se sono una ragazza tranquilla ho comunque bisogno di muovermi, di aria aperta per respirare meglio e di liberare un po' la mente, cosa che non riesco a fare se qualcuno sta sempre appiccicato a me e mi tiene rinchiusa. Io questo glielo dico, provo a spiegarglielo, ma lui è irremovibile, quindi decidiamo di fare un giro all'interno dell'accademia. La passeggiata rimane abbastanza silenziosa: lui, come me, non è di molte parole, allora poi decido io di rompere il silenzio.

<tu invece nella vita cosa sei?> gli chiedo curiosa, non riferendomi al lavoro
<come? Io lavoro qui. Sono questo> risponde sulle sue
<no, questo lo so. Intendevo in famiglia. Hai figli, moglie, ragazza...>
<io... no. Sono solo un figlio e un fratello> risponde vago
<sembra brutto da come lo dici. Non deve essere così male!>
<no, no. Per me non è male. Ma per gli altri si. Diciamo che non sono esattamente il figlio e fratello perfetto> e abbassa la testa. Ci fermiamo in mezzo al corridoio e lui si appoggia con la schiena al muro incrociando poi le gambe e guardando fisso per terra. Le mani le congiunge dietro la schiena nella fascia lombare e si abbandona per un po' in quella sensazione di solitudine, forse, di incomprensione, probabilmente. Si perde in quel vuoto, quello suo, che gli cresce dentro, che lo logora. E io non faccio niente. Niente per impedirlo.
<Ho conosciuto la vera solitudine, quella interiore, ho imparato a servirmi di una forza che non avevo, ho imparato a non proteggere il dolore, a comprenderlo, a guarirlo. Ho imparato il coraggio, quello di tutti i giorni, quello ordinario; ho imparato che mostrare le proprie debolezze è importante, ma non farlo, a volte, lo è ancora di più. Che si può essere eroi, ma che c'è sempre un prezzo da pagare. Ho imparato la sofferenza silenziosa e i sorrisi che la celano. Ho imparato ad aver gli occhi lucidi e a far credere agli altri, invece, che brillino. Ho imparato la fatica e ho imparato a trasformarla in volontà. Ho imparato che si può dire grazie in mille modi diversi e, per ognuno di loro, ho imparato a ringraziare me stessa nei momenti in cui lo meritavo davvero. Ho imparato come poggiare la mia mano sul petto per far tornare a battere il cuore le volte in cui non ci riusciva da solo. Ho imparato come, spesso, ad un giardino segreto basta una chiave e ad una casa sull'albero, una scala. Ho imparato che i ricordi non hanno una seconda possibilità e che bisogna conservarli con cura, come si faceva una volta con i rullini di una macchina fotografica analogica; una di quelle che dovevi stare attento a non rovinate la pellicola, una di quelle che, mentre usavi il flash, sembrava stesse cadendo una stella, una di quelle che, nell'istante in cui scattavi, ti fidavi di te, perché non avevi possibilità di rivederla su uno schermo, cancellarla e poi rifarla. Ho imparato a fidarmi di me> e mentre lo diceva s𝑜𝑟𝑟𝑖𝑑𝑒𝑣𝑎 𝑐𝑜𝑛 𝑝𝑎𝑐𝑎𝑡𝑎 𝑡𝑟𝑖𝑠𝑡𝑒𝑧𝑧𝑎, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑠𝑒 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑒 𝑠𝑒𝑚𝑝𝑟𝑒 𝑝𝑒𝑟 𝑓𝑖𝑛𝑖𝑟𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜, 𝑐𝑜𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑚𝑎𝑙𝑖𝑛𝑐𝑜𝑛𝑖𝑎 𝑐𝘩𝑒 𝑙𝑜 𝑓𝑎𝑐𝑒𝑣𝑎 𝑠𝑜𝑚𝑖𝑔𝑙𝑖𝑎𝑟𝑒 𝑎𝑙 𝑓𝑖𝑛𝑎𝑙𝑒 𝑑𝑖 𝑢𝑛 𝑓𝑖𝑙𝑚 𝑑𝑖 𝐹𝑒𝑙𝑙𝑖𝑛𝑖.
<io avevo un figlio, Eryn> confessa <e... per colpa mia, della vita che facevo, lui ora non c'è più. Era la cosa più bella che mi fosse mai capitata. L'essere vivente che ho amato di più. E da quando ho conosciuto l'amore che posso dare, con lui, mi chiedo quante persone io abbia mai amato davvero. Nessuno, Eryn. E forse non amerò mai più così. Mi fa paura amare. Perché ti fa soffrire cosi tanto!>

Dal tramonto all'albaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora