ℂ𝕒𝕡𝕚𝕥𝕠𝕝𝕠 7 ℙ𝕠𝕧. 𝔼𝕧𝕖𝕝𝕪𝕟

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Passi.
Un leggero bussare alla porta della biblioteca privata.
Evelyn sapeva chi c'era dietro quella parete, poteva vederlo con chiarezza.
Il libro aveva iniziato a tremarle fra le mani, pensava di averlo superato, pensava di essere più forte di cosí, evidentemente si sbagliava.
Altro bussare, questa volta più insistente.
La giovane donna prese un profondo respiro per calmare i nervi e raccogliendo tutta la determinazione che aveva in corpo si diresse a passi incerti verso l'uscio, stringendo il libro fino a farsi diventare le nocche bianche.

<Avanti>

<La... cara madama qui presente desiderava vederti...>

A pronunciare quelle parole era stato Archibald, ora fermo sulla soglia della porta spalancata, accompagnato da un'altra figura. La donna al fianco dell'ambasciatore era alta e snella, dai capelli biondo scuro. Una buona dose di trucco nascondeva quasi del tutto le sue rughe d'età e un familiare tatuaggio le adornava la fronte. Il vestito che indossava era rosso scuro e incredibilmente voluminoso.

<Evelyn cara, sono mesi che cerco di parlarti di persona, non dirmi che ti sei dimenticata della tua povera madre...>
Disse dopo qualche secondo la donna, avanzando verso Eve con un sonoro sospiro.

<Pensavo di aver reso abbastanza chiaro il concetto, non ho niente da dirvi.>
La giovane odiava come la sua voce sembrasse cosí piccola e insignificante in questa situazione, ma ciò non l'avrebbe certo fermata nell'esprimere ciò che pensava.

<Ti sbagli, mia cara, abbiamo molte cose di cui discutere. Ora, se il mio caro nipote volesse lasciarci...>
La voce della madre, da calma, si era fatta più insistente e severa. La donna poi si girò verso Archibald, che dal suo canto stava osservando intensamente le suole bucate delle sue scarpe.
Una volta resosi conto delle parole della donna, gli occhi azzurri dell'ambasciatore incontrarono subito quelli castani di Evelyn.

"Scusa."

La voce del cugino rimbombava nelle orecchie di Eve, tuttavia l'uomo non aveva mosso le labbra e la guardava solo con un sorriso simpatetico.

"Non preoccuparti, me la cavo da sola."

La risposta della giovane, altrettanto inudibile alla madre, fu accompagnata da un leggero sorriso forzato.
Seguí, un lungo silenzio, interrotto solo da un colpo di tosse dell'ambasciatore.

<Bene... allora lascio voi donzelle alla vostra chiacchierata.>
Concluse allora Archibald, la cui voce, sempre gioviale, aveva questa volta un qualcosa di forzato.
Non appena il cugino scomparì nel corridoio la madre non perse tempo per avanzare verso Evelyn.

<Allora cara, hai pensato a quelle lettere che ti ho mandato?>

Nessun saluto, nessuna preoccupazione riguardo la salute della figlia, solo una domanda.
Eve era certa che la madre l'avesse vista mentre le strappava. Eppure la donna continuava a parlarle come niente fosse, come se Evelyn non avesse cercato di evitarla da mesi e mandare a monte qualsiasi stupido progetto avesse per il suo futuro. Eve sapeva che era solo gentilezza di facciata, che quella donna era lì per uno scopo e, che se non faceva qualcosa al più presto, l'avrebbe raggiunto.

<Madre, non ho intenzione->

<Il marchese Alberth è indubbiamente un buon partito ma io stavo pensando più in alto....>

<Vi ho detto che->

<Bisogna assolutamente che tu partecipi alla piccola soiree dei cortigiani di Sire Faruk sta sera...>

<Come ve lo devo dir->

<Ti posso presentare personalmente, sono sicura di riuscire a riservarti un posto d'onore al gineceo! Certo non puoi andare conciata cosí...>

Aggiunse la donna guardando i ciuffi ribelli che uscivano dallo chignon della ragazza.
Più Evelyn provava ad obbiettare, più la madre continuava il suo discorso noncurante della sua opinione. La giovane si sentiva estremamente frustrata. Parlare con quella donna era come parlare con un muro. D'improvviso, Evelyn era come tornata bambina, piccola ed incapace di farsi ascoltare.

<Mi aspetto di vederti vestita e truccata adeguatamente. I tuoi vestiti sono cosí scialbi...>

La madre continuava il suo prolisso discorso che Eve non riusciva nemmeno più ad ascoltare, la testa le stava scoppiando, e senza nemmeno accorgersene, aveva perso il controllo.

La madre, Archibald e le sue sorelle, i suoi zii, nobili che a malapena conosceva, un centinaio di voci estranee sembravano sommergerla, sentiva tutto e non sentiva niente, vedeva tutto, ma non vedeva quello che aveva di fronte. Si sentiva annegare in un mare di voci e a malapena riconosceva la sua.
Si sentiva piccola, si sentiva patetica, si sentiva arrabbiata.

<ANDATEVENE!>

Silenzio.

Le voci non c'erano più. Evelyn aveva urlato con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Non sapeva nemmeno lei a chi di preciso, se alle voci o alla madre. Di una sola cosa era certa, aveva perso il controllo, si era comportata da irresponsabile, aveva urlato, come una bambina.

<Come, prego?>
La donna di fronte a lei aveva smesso di parlare e ora la guardava inorridita.

<Andatevene. Non avete alcun diritto su di me, avete smesso di averlo quando sono diventata maggiorenne. Decido io per il mio futuro.>
Evelyn si sentiva esausta, ma non voleva perdere l'ultimo briciolo della propria dignità davanti a quella donna.

<Come ti permetti. Ragazzina io ti ho cresciuta, ti ho educata, e tu mi ripaghi scappando di casa? Vuoi farmi passare per la cattiva? Io mi adopero per il tuo futuro! Cerco di dare orgoglio al nome della Rete! Mentre tu ti rifugi da quel buffone dell'ambasciatore e passi le giornate a bighellonare fra i libri. Io voglio il meglio per noi! Pensi che qualcuno ti vorrebbe in moglie se non fosse per me? O preferisci finire come tuo padre?>
L'espressione della madre da calma era mutata in una di pura ira. Evelyn era pietrificata. Come osava parlare del padre dopo quello che aveva fatto? Avrebbe voluto protestare, arrabbiarsi o almeno replicare qualcosa, ma non ne aveva le forze.

<Ne riparleremo quando ti sarà tornato un po' di buonsenso, figlia mia.>
E con un sospiro deluso, come se non fosse successo niente, sua madre uscí dalla stanza con passo veloce.

Eve, rimasta da sola nella piccola biblioteca si sdraiò sul divanetto di velluto vicino ad uno scaffale.
Era sfinita, arrabbiata con la madre, ma soprattutto con sè stessa.
Aveva perso il controllo, non le succedeva da quando era una ragazzina.
Lo stress e l'agitazione le avevano offuscato i sensi, facendole involontariamente recepire in contemporanea le informazioni provenienti da tutta la rete. Era un errore da principianti grazie al quale aveva consumato tutte le sue energie, si sentiva patetica.
Istintivamente la giovane donna si portò la mano alla fronte per massaggiare la zona dove era il suo tatuaggio, nella vana speranza di farsi passare il mal di testa.
Avrebbe voluto mettersi a piangere, avrebbe voluto sfogarsi con qualcuno, avrebbe voluto rompere qualcosa.
Non poteva.
Far parte della rete significava anche essere sempre osservati, doversi mostrare forti in qualunque situazione.

Al Polo, i più deboli vengono schiacciati.

Per quanto Eve cercasse di non curarsi del giudizio del resto della rete come il cugino, in situazioni come quella non ci riusciva.
Sul viso della giovane donna cadevano silenziose le lacrime, finchè la stanchezza non ebbe la meglio e pian piano le fece perdere coscienza.

Vita al Polo: Storie di due nobili (Attraversaspecchi)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora