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C'è una cosa che non rimpiangerò dei miei sedici anni. Oddio, forse più di una, ma sento che da qualche parte in cima alla lista si piazzeranno le feste di compleanno dei compagni di classe.

Presente? Quelle tavolate in pizzeria, piene di adolescenti chiassosi, tutti agghindati per l'occasione ma annoiati dopo neanche mezz'ora.

Non datemi subito dell'ipocrita: c'è una ragione se sono qui stasera (e se mia madre me lo ha concesso). In questo ristorante ci lavora mio cugino, fa il cameriere. Perciò io sono contenta di dormire a casa sua a fine serata e i miei sono contenti di non dovermi venire a riprendere.

Peccato che prima di arrivare a questa parte io debba sorbirmi Marta e tutta la sua combriccola. Mi sono alzata dal tavolo almeno dieci minuti fa, ma nessuno pare essersene accorto. Così me ne sto sull'altalena, nel parchetto adiacente al parcheggio, insieme a bambini di tre o quattro anni che salgono al contrario sullo scivolo e mi ignorano. Trovo più interessanti loro dei miei coetanei.

Per essere fine ottobre si sta ancora bene. Niente più caldo appiccicoso sulla pelle, solo un'aria frizzante che mi permette di nascondermi sotto le mie felpe preferite.

Mi dondolo in modo pigro. Dalla finestra vedo i miei compagni. Molti di loro sono in piedi attorno a una ragazza di quinta. È quella bella, quella popolare, insomma la punta della piramide sociale del liceo Medi. È ovvio che sia lei il centro della serata. Credo sia anche per questo che Marta l'ha invitata: sapeva che la presenza della reginetta avrebbe significato una tavolata sold out. Come se potesse sfruttare l'aurea di Carlotta Ponti per ereditarne la fama l'anno prossimo, quando il posto di Ape Regina sarà vacante.

Trovo tutto questo inutile e frustrante. Invitarsi anche se non ci si rivolge mezza parola, dover fare colletta per un regalo sciatto, cercare di far colpo... Ma che senso ha? Li vedo scoppiare in risate sincronizzate, e ogni volta che succede le coppie ai tavoli vicini fanno smorfie.

Ci casco tutte le volte. Quando qualcuno mi invita alla sua festa – in pizzeria, a mangiare sushi, in questo o quel locale – all'inizio resto sul vago. Poi mi faccio incastrare da Daria, la mia migliore amica, che per qualche oscuro motivo ci tiene a essere sempre presente.

Non farmi andare da sola. Ho bisogno di te, Linda, eddai. Non facciamoci escludere ancora di più!

Risultato: lei alle dieci ha già levato le tende perché sua madre non le permette di andare oltre; io passo tutta la serata a rimpiangere di non essere rimasta a casa a farmi gli affari miei.

Ma almeno stavolta ci sarà Simo a rallegrare la situazione. Perciò aspetto. E aspetto. E aspetto.

Intanto guardo Marta ronzare intorno a Carlotta come una damigella d'onore, Gianluca spogliarla con gli occhi, Francesca imbronciata perché nessuno nota il suo nuovo taglio di capelli. Io l'ho notato, per inciso, ma non è che dirglielo l'abbia resa meno acida nei miei confronti.

Poi mi soffermo su di lei. Su Carlotta.

Per quanto mi sforzi, è una difficile da ignorare. In qualsiasi contesto la si metta, l'attenzione ricade sempre su di lei.

Per dire: a ogni assemblea d'istituto fa il bello o il cattivo tempo, e quando si arrabbia sul serio il suo caschetto biondo platino oscilla al ritmo delle sue invettive finché persino il preside accetta di fare a modo suo. Tutte le mattine varca il cancello della scuola a falcate così decise che si ha l'impressione che la tipica studentessa americana, protagonista della sua serie tv trita e ritrita, si sia teletrasportata a Senigallia. E in effetti lo è, americana, anche se solo per metà. Tutti a scuola sanno che sua madre, Mary Margaret, viene dal Tennessee. Insegna conversazione inglese da noi, cosa che metterebbe a disagio qualunque adolescente. Avere la madre a scuola, un incubo. Ma non per Carlotta. Niente può turbarla – nemmeno i Mary Margaret milf! incisi sulle porte dei bagni. Incisi, sì, non scritti con i pennarelli. È questo il tipo di sforzo che i pochi alunni maschi del linguistico ci mettono. E se non la scoccia questo, figurarsi una noiosissima festa di compleanno.

Mentre la fisso, mi dico: dev'esserci qualcos'altro, a parte la bellezza. Ci deve essere qualche altra ragione se tutti sono attratti da lei come magneti. Eppure, più la studio con lo sguardo, più mi convinco che forse sta davvero tutto lì, nell'apparenza. È una specie di zircone, no? Sotto una bella luce brilla, e parecchio anche, ma di fatto al buio vale davvero poco. Chissà.

Io, se proprio devo dirla tutta, la trovo solo un po' esibizionista. Ma non gliene faccio una colpa, anche Daria lo è. Pure Marta. Cavolo, persino io lo sono allo skatepark. È solo che a Carlotta viene naturale ovunque. A tutte le altre, no.

È proprio mentre penso queste cose che il suo sguardo si alza, come richiamato dai miei pensieri. Attraversa tutta la sala, i vetri delle finestre, il buio del parchetto e...

E poi torna indietro. Mi rimbalza addosso, perché in realtà Carlotta non mi vede. E come potrebbe? Del resto sono lontana da tutti e nascosta nel buio. Probabilmente non sa nemmeno della mia esistenza. Quindi, perché mai dovrebbe notarmi?

«Eccola qui, l'anima della festa».

La voce di mio cugino mi riporta alla realtà. La riconoscerei anche nel bel mezzo di un concerto. Mi giro verso di lui e lo trovo con la cravatta nera allentata, i primi bottoni della camicia bianca sbottonati.

«A chiunque abbia servito il nostro tavolo: chiedo umilmente scusa a nome di tutti» comincio, fermando la mia dondolata. Lui si siede sull'altra altalena.

«L'importante è che non sia capitato a me» ride. «Allora, dov'è la tua amica?».

«Figurati. Sua madre è passata a prenderla tipo trentamila ore fa».

Simo guarda l'orologio. «Be', wow. Cenerentola in confronto si vive una pazza movida ogni sera».

«Già. Allora, qual è il programma per il nostro after party?» chiedo, impaziente.

«Lieto che tu abbia chiesto» dice lui. «Opzione uno: tradizionale gelato sul lungomare. Tappa al Millefoglie e non si sbaglia mai».

Accenno un sorriso che significa: già questo è ok.

«Oppure, opzione due: ti porto al cinema a vedere It, così conosci Pennywise».

Qua scuoto la testa decisa. Non esiste proprio.

«Come immaginavo. Quindi, terza e ultima opzione». Fa una pausa e mi si avvicina. «Andiamo in una casa abbandonata non troppo lontana da qui. L'hanno trovata Omar e Johnny. E sai una cosa? Ha una piscina. Vuota».

Mi alzo di scatto dall'altalena e mi pianto le mani sui fianchi.

«E quando pensavi di dirmelo?». Lui se la ride. «Che cavolo ci fai ancora in tenuta da cameriere? Vai a cambiarti, dai!».

«Vado, vado!». Si alza, ma dopo due passi si volta verso di me. «Non hai portato lo skate per caso, vero?».

Scuoto la testa, sconsolata.

«Allora meno male che ne ho portato uno di scorta».

Gli faccio un sorriso a trentadue denti e, prima di lasciarlo andare negli spogliatoi, lo fermo.

«Oh, Simo. Sai chi ha un cugino fantastico e ha due pollici?». Lui fa cenno di no, ma sta già ridendo. Io indico il mio bel faccino felice con entrambi i pollici ed esclamo: «Io!».

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