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La libertà ha un odore. A volte, anche un suono.

Per me, questo odore è quello del mare; il suono è quello delle ruote che sfregano contro l'asfalto.

Quando vado in skate sul lungomare sembra che tutto il mondo mi assecondi. Le onde con la loro andatura lenta, rilassata; le persone con il loro vociare indistinto; la salsedine che mi si appiccica addosso come un leggero strato di sudore; il vento che mi tira indietro i capelli.

Ecco perché domenica pomeriggio arrivo allo skatepark serena come non mai, nonostante Daria mi abbia confermato che non verrà. Mi ha mandato un messaggio con la punteggiatura. La punteggiatura! E zero emoji. Insomma è incazzata nera, ma pazienza, mi inventerò qualcosa.

Carlotta dovrebbe arrivare per le tre e mezza, ma in realtà alle tre e dieci è già lì.

«Sei in anticipo» le dico mentre si avvicina.

«Be', anche tu» mi fa notare.

Non posso che darle ragione. Butto una rapida occhiata al suo abbigliamento, che è decisamente più adatto rispetto a quello di ieri. Mi ha ascoltata, mi sorprendo a pensare. E per qualche strana ragione ne sono contenta.

Guardo il suo Penny – di un fucsia intenso. È nuovo di zecca.

«Spero che tu abbia fatto tante foto allo skate» le dico «perché a fine giornata potrebbe non essere più così perfetto».

«Tranquilla, l'ho messo in conto. Prima di cominciare però dovrei chiederti un favore» dice un po' imbarazzata. «Sono rimasta in casa a lavorare su una ricerca enorme e ho perso la cognizione del tempo. Quando ho guardato l'ora erano quasi le tre e sono schizzata qui, temendo di arrivare in ritardo... però dovrei ancora pranzare».

«E no, bisogna rimediare» cerco di metterla a suo agio. «Non si affronta lo skate a stomaco vuoto. Comunque avresti potuto rimandare senza problemi» mento fingendomi disinvolta. «Capisco quando ci sono altri impegni di mezzo».

«Sì, è che in realtà non volevo rimandare» ammette con un sorriso. «In ogni caso, ho portato qualcosa da casa. Che ne dici se improvvisiamo un picnic ai Giardini Lorrach e poi torniamo qui?».

«Ci sto».

Ci avviamo a piedi, tanto sono meno di cinque minuti. Sento subito l'imbarazzo del silenzio. Non è la prima volta che le parlo, ok, però provo una strana pressione. Come se dovessi fare colpo a tutti i costi. Per fortuna, è lei a rompere lo stallo.

«Allora» riparte «la tua amica arriva dopo?».

«Chi, Daria? No, è malata» rispondo sbrigativa. «Quindi oggi saremo solo io e te».

La guardo di sfuggita e mi pare che sorrida, stretta nelle spalle. Ma non ci giurerei.

«Quindi, Linda. Dimmi tre cose su di te che ancora non so, dai» rompe il ghiaccio.

«Ok, vediamo... Sono figlia unica».

«Anche io».

«Sono nata a settembre».

«Anche io!» ripete, sorpresa. «Che giorno?».

«L'uno».

«No way! Io il due!» esclama colpita. «E poi? Terza cosa?».

Ci penso un attimo. «E poi ti direi che sono nata a Mantova e non a Senigallia. Anche se ero così piccola che nemmeno me lo ricordo».

Per un attimo Carlotta non aggiunge altro. È solo dopo qualche secondo che si volta verso di me.

«Però queste sono tre cose che posso trovare sulla tua carta d'identità. Ok, non le sapevo, ma non sono... speciali. Dimmi tre cose su di te che solo tu potresti svelarmi».

«Ma questa è difficile» protesto poco convinta. «Perché non cominci tu, così mi dai l'esempio?».

«Ok».

Attraversa la strada, e io con lei. Cammina tranquilla. Io non posso fare a meno di pensare che sembra fatta d'oro. Sarà anche la luce del pomeriggio, ma tutto in lei sembra splendere senza un particolare sforzo: i capelli chiarissimi, la pelle di porcellana, gli occhi trasparenti.

«Preferisco la pizza fredda» riparte poi. «Ho paura degli aghi, e questo mi impedisce di farmi il septum al naso, anche se lo vorrei da morire». Va verso le altalene. «E mi fanno senso i cactus. Giuro, li odio, sembrano brufoli verdi pronti a esploderti addosso se li sfiori».

Non posso evitare di ridere. «Cosa? I cactus? Ma non ci credo, questa è la prima volta che la sento».

«Giuro! Adesso tu» continua sedendosi. Con una mano agita la catena dell'altra altalena, invitandomi accanto a lei.

«Odio la vaniglia in tutte le sue forme: saponi, profumi, tisane, creme, qualsiasi cosa. Ho paura dei clown, dei palloncini e delle cavallette. E sogno di andare a vedere i Twenty One Pilots, prima o poi».

«Cool, piacciono anche a me. Comunque hai visto? Non era così difficile» dice facendomi un occhiolino.

«No, infatti».

La vedo appoggiare lo zaino sulle ginocchia e fermarsi di botto. Mi guarda come se un'idea l'avesse appena fulminata.

«Hai fame?».

«Non troppa».

«Ma abbastanza da farmi compagnia? Ho portato tre quintali di roba pensando ci fosse anche la tua amica».

«Ah... Be'...».

Sono a disagio. Non perché non mi vada l'idea di mangiare qui, ai giardini, con lei, bensì perché all'improvviso lo stomaco mi si è attorcigliato su se stesso. Lei deve prendere la mia esitazione come un bisogno di incoraggiamento, così mi prega.

«Eddai! Giuro che poi ci mettiamo all'opera con lo skate».

Non mi lascia nemmeno il tempo di rispondere. Tira fuori dallo zaino biscotti, patatine e bibite, quasi fossimo qui per festeggiare un compleanno.

«Non sarà un pranzo salutare, ma sono le prime cose che ho trovato in dispensa» si giustifica offrendomi il tubo aperto delle Pringles.

E io non posso fare a meno di sentirmi lusingata. Perché mi fa piacere. Che lei sia qui, che abbia pensato di portare spuntini per tutti, che sia pronta a cimentarsi nel mio hobby. Mi fa sentire interessante.

Eppure, sotto questo strato di allegria, c'è un pensiero nuovo nella mia testa, che un po' mi lascia spaesata. Un pensiero che sgomita per arrivare in prima fila e farsi vedere.

È la prima volta che preferirei restare qui, con lei, invece che andare allo skatepark.

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