La nonna sta morendo.
Quando papà mi dice di sbrigarmi, che la mamma è già in macchina e la mia valigia pure, non so come rispondere. La testa mi galleggia in un mare di pensieri sconnessi.
Nonna? Perché, morendo? Mica sta male. È uno scherzo. Ma la mamma piange davvero. Nonna? Ma come? No, non è possibile. Era malata? Non lo sapevo. Forse lo sapevo e me lo sono scordato. Dovrei piangere. Perché non sto già piangendo? Che cazzo c'è di sbagliato in me? La nonna. Nonna Belinda, dai, hai il suo stesso nome, per l'amor di dio, PIANGI.
Ma non ci riesco. Non ci riesco né quando vedo il viso stravolto della mamma, né durante le tre ore che ci impieghiamo ad arrivare a Mantova.
Sono incapace di reagire. Vedo la mamma perdere la sua compostezza, quella rigidità nei lineamenti che di solito tanto odio e che ora invece mi manca. Mi sembra di assistere a una scena che dovrebbe essermi vietata. Non dovrei vedere i miei genitori in queste condizioni, giusto? Non voglio vedere mamma crollare davanti a me.
Però è questo che succede. Sfrecciamo sulla A14 – una strada che abbiamo fatto tante volte, a Natale, a Pasqua – e la mamma continua a piangere, chiedendo a papà di ridurre quelle tre ore al minor tempo possibile, come se da questo dipendesse la vita della nonna.
E io, proprio stamattina, mi sono scordata il telefono a casa. Non ho via di fuga. Sento tutto quello che si dicono. Sento come si è svolto l'incidente che ha coinvolto la nonna, la bici, l'inchiodata, la testa sul marciapiede e il trauma cranico, il femore rotto. Tutto.
Mi rendo conto che non ho mai pensato alla morte come a una cosa concreta. Mi è sempre parsa impalpabile, qualcosa di temibile e triste. Ma questa... questa è tutta un'altra storia.
Arriviamo all'ospedale Carlo Poma che la nonna è appesa a un filo. Non me la fanno vedere, ormai è del tutto incosciente. Riesco solo a intravederla di sfuggita, dietro una porta, con la mascherina per l'ossigeno piantata in faccia e un ematoma che la rende irriconoscibile.
Penso: non voglio che sia questa l'ultima immagine che ho di nonna. E la cosa buffa è che vengo accontentata, perché parecchie ore dopo la rivedo. Nel letto di casa, durante la veglia, vestita e truccata come se fosse appena tornata da una cena fuori con le amiche, col suo miglior vestito e le scarpe comprate al mercato, i capelli candidi gonfiati dai bigodini e schiacciati sulla nuca.
Sta dormendo, mi dico. Però poi, quando mi avvicino e sento il gelo nelle sue mani, quelle stesse mani che per così tanti Natali mi hanno preparato i biscotti alla cannella, mi ritraggo di colpo. Guardo papà, sulla soglia della camera. Non sa cosa dirmi.
Così capisco. È questa la morte. Assenza. Assenza di calore, di parole, di fatti quotidiani, di biscotti fatti a mano. È solo uno stupido velo freddo e sottile che separa cioè che era da ciò che sarà.
Né più, né meno.
La mamma è quella che soffre più di tutti.
Ha smesso di essere figlia.
Mi sembra assurdo che lei possa essere, oltre che mamma, anche moglie, e donna, e orfana. Ma è così. All'improvviso vedo lati di lei che non avevo mai neanche considerato.
Per tutto il viaggio ha ripetuto in una cantilena straziante: se arrivo prima che muoia non me lo perdono, non me lo perdono, non me lo perdono.
E anche lei è stata accontentata. È riuscita a stringerla. Mentre moriva. La mamma è stata l'ultima a sentirla viva e la prima a sentirla morta.
Tutte le volte che ci penso mi viene male allo stomaco e la gola mi si chiude. Non voglio che succeda anche a me. Non voglio che nulla di tutto questo si ripeta mai più, né a me, né alla mia famiglia, né alle mie amiche.
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Ocean Eyes
RomanceLinda ha sedici anni e una vita normalissima. Le sue giornate ruotano intorno a tre cose: skate, amici e scuola. Almeno finché non arriva Carlotta...