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Essere depressi fa schifo.

Non lo intendo in modo metaforico, della serie oh mio dio la mia anima è così misera e cupa che vorrei uccidermi. No, intendo proprio dal punto di vista igienico.

Sono giorni che non mi faccio una doccia. Vivo negli stessi abiti da... credo almeno settantadue ore. Di sicuro non sono macchiati di sugo o cibo in genere, visto che non entro in cucina da parecchio. Però, insomma, siamo pur sempre a luglio. Si suda.

Così a un certo punto sono costretta a darmi una regolata. Mi trascino in bagno, sperando che mamma e papà non abbiano già smontato pezzo per pezzo anche quello.

Il getto d'acqua tiepida sul collo mi scioglie subito le spalle. Un po' alla volta diminuisco la temperatura fino ad avere freddo. Ma va bene così, ho bisogno di svegliare un po' i sensi. Credo.

Prendo il flacone di shampoo e mi gratto la testa con più violenza di quanta ne serva. Risciacquo, chiudo gli occhi, mi abituo all'acqua gelida finché quasi la trovo piacevole.

Poi commetto un errore. Una cosa stupida, davvero, però mi fa perdere il lume della ragione.

Mi verso il balsamo sulle mani.

Solo quando me lo vedo lì, accoccolato sul mio palmo, mi chiedo: e io che cosa dovrei sbrogliare, esattamente?

In un attimo mi torna tutto indietro. Ogni fotogramma che la mia memoria ha catalogato alla voce "festa Carlotta" mi esplode in testa, amplificato. Lei che mi guarda e sa di avermi tradita. Lui che fa il palo. L'altro che mi sciaccia le costole. Le mie mani gialle nello sforzo di reggermi al lavatoio. I capelli.

Mi prende una rabbia così forte che vomito. Lì, nella doccia, sui miei piedi. Per fortuna non escono che succhi gastrici e basta, ma lo sforzo innesca una tosse stizzosa che, in un circolo vizioso, mi impedisce di smettere. Per fortuna c'è il rumore dell'acqua a coprire i conati, altrimenti la mamma avrebbe già sfondato la porta.

Ci vuole un po' perché il mio stomaco torni a starsene buono. Poi mi risciacquo con calma e cura. Ogni mio movimento è lentissimo, calibrato, perché non voglio ricominciare con la nausea e tutto il resto.

Quando esco dalla doccia, per poco non scivolo. Prendo quel flaconcino di balsamo inutile – eppure così necessario fino a qualche giorno fa – e lo verso tutto nel gabinetto. Guardo la poltiglia bianca e profumata che scivola lungo le pareti del water.

All'improvviso sono triste. Voglio piangere però non ci riesco. Stento a credere che questa sia io. Una poltiglia.

Mi alzo, anche se la testa gira più di prima. Fisso il mio corpo allo specchio, nudo. Le costole non sono mai state così spigolose. Le occhiaie, mai così nere. Mi sto svuotando. Qualcosa mi sta prosciugando da dentro.

Torno alla realtà solo quando la mamma bussa alla porta e io sussulto.

«Li...». Si ferma. Sospira. «Belinda. C'è Simone. Esci?».

Mi rivesto in camera. Intanto Simo aiuta papà a scrivere con i pennarelli sugli scatoloni.

Sono contenta di essermi lavata prima che arrivasse. Mi avrebbe presa in giro da qui a per sempre se mi avesse sentita puzzare.

Poi li raggiungo. Entro in cucina e papà smette di parlare. Abbassa lo sguardo, farfuglia qualcosa riguardo le ultime valigie e sparisce.

Simo è seduto sul tavolo.

«Wow» comincia. Mi squadra dalla testa ai piedi con un sorriso compiaciuto. «Ti piace proprio quella tipa di Stranger Things, eh? Quella col sangue al naso».

Dovrei ridere. Vorrei ridere. Se non altro, Simo sta usando un approccio più ironico degli altri alla mia testa rasata. Ma proprio non ci riesco. Faccio una smorfia e mi stringo nelle spalle.

«Sai chi sembri così?» chiede.

«Una scappata da Azkaban?».

«Stavo per dire Sinéad O'Connor».

«Non so chi sia» ammetto mentre vado a prendermi un bicchiere d'acqua.

«Comunque sei molto più rock'n'roll, così». Mi segue con lo sguardo. Quando si accorge che non ho intenzione di tornargli di fronte, è lui a girarsi sul tavolo. «Allora, quali sono le domande bannate?».

«Quante ne ho a disposizione?».

«Diciamo cinque».

«Ok». Mi appoggio al frigo e comincio a contare con le dita. «Non puoi chiedermi come sto. Cos'è successo. Chi è stato. Se mangio. E non puoi chiedermi neanche di uscire».

«Oh, eddai. Mi hai fregato proprio sull'ultima».

«Spiacente».

«E su, per favore. Domattina gli zii fanno un altro viaggio per scaricare roba a Mantova. Sono il tuo babysitter ufficiale per tutta la giornata di domani e tu mi neghi di andare insieme allo skatepark?».

Cerco di ricordare. Mi hanno detto che sarebbero andati via? Probabile. Stavo ascoltando? Improbabile.

«Non so neanche in che scatolone sia finito lo skate» butto là, vaga. «Per quel che ne so, potrebbe già essere a casa della nonna. Cioè, nostra. Casa nostra».

Simo fa gli occhioni da Bambi. Ci riprova. «Io e te da soli. Tutto il giorno. Niente lavoro, niente scuola, niente zii. Ma quando ci ricapita?».

«Simo...».

«Te lo dico io» riparte. «Di sicuro non ci ricapita a breve, visto che tra una settimana verrai inghiottita dalla nebbia lombarda».

Aggrotto la fronte. No, un momento.

«Una settimana?». Cerco di fare mente locale, ma invano. Il mio cervello ha resettato parecchie cose. «Scusa, ma che giorno è?».

«Giovedì diciannove».

«No, davvero, che giorno è?». Cerco il calendario in cucina, ma non c'è più. C'è solo il chiodo alla parete.

«Sono serio. È giovedì diciannove luglio».

Mi blocco. Una vampata di paura e rabbia mi sale alle guance.

«Linda? Che succede?».

Succede che fra dieci giorni Carlotta parte.

Succede che non la rivedrò mai più.

Succede che me n'ero dimenticata.

Non che abbia voglia di salutarla dopo quello che mi ha fatto. Dio, la odio ancora come non mai. Se me la ritrovassi davanti probabilmente vorrei darle uno schiaffo in piena faccia o sputarle addosso. Eppure al tempo stesso non posso sopportare l'idea che l'ultimo sguardo che ci siamo scambiate sia quello con cui mi ha tradita. Non lo accetto. Questa non è una conclusione degna di quello che c'è stato tra noi, questa non è neanche lontanamente una conclusione. È solo una ferita aperta che sanguina ogni giorno più del precedente.

«Linda?» ripete Simo. Mi schiocca le dita davanti al naso. Non mi sono nemmeno accorta di quanto si sia avvicinato.

Io mi ridesto e mi allontano un po' da lui. Giro intorno al tavolo per prendere tempo e ritrovare il controllo.

Non deve importarti. Non deve importarti. Dimenticala. È stata lei.

«Oi, ma ci sei?».

Non ci posso credere. Ho perso la cognizione del tempo in modo così drastico che me ne sarei scordata. Non che ora cambi qualcosa... Cioè, non posso mica andare a cercarla per dirle addio. O gridarle addosso. O fare entrambe le cose.

Giusto?

«Sai che ti dico?» sbotto di punto in bianco. «Hai ragione. Devo uscire da qui. Aiutami a cercare lo skate, ti va?».

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora