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Stringo la mano di Carlotta mentre guardo la nonna andare sottoterra.

Non ho il coraggio di alzare gli occhi verso la mamma, né verso papà. Tanto li sento piangere, e questo mi pare già abbastanza insopportabile.

Fisso il legno lucido della bara. Poi mi concentro su qualche filo d'erba, sugli orli dei vestiti neri, sulle api che rubano nettare ai fiori delle altre lapidi, sui mozziconi che Simo calpesta.

C'è più gente di quanto mi aspettassi, ed è bello per nonna, ma non per me. Non mi sento libera di sfogarmi. Mi faccio scrupoli ad appoggiare la testa sulla spalla di Carlotta, come invece vorrei fare.

Lei non allenta la presa, mai. Mi sta vicina senza soffocarmi. Non posso che chiedermi, una volta che tutto finisce, come avrei potuto affrontare il funerale senza di lei. Impensabile.

Torniamo a casa dal cimitero a piedi, io, Carlotta e Simo. Non siamo tanto lontani. Però c'è un silenzio pesante tra di noi che fa sembrare quella breve strada lunga il triplo.

Simo sta dietro di noi, con la cravatta nera allentata, la sigaretta ancora una volta in bocca. Più che triste, mi sembra arrabbiato nero. Non penso di averlo mai visto così. Vorrei chiedergli come sta, ma con Carlotta qui non penso che sarebbe sincero.

Infine arriviamo. Il vuoto riempie la casa di nonna. Mi rendo conto che nulla sa essere più presente di un'assenza, e la cosa mi colpisce. Ho un brivido.

Carlotta sale a farsi una doccia. Poi deve mettersi a studiare. Non importa che sia qui, con me. Lei ha comunque una maturità da affrontare a breve. Vista così, apprezzo ancora di più che sia venuta.

Io e Simo restiamo in salotto. È una stanza vecchia e vissuta. Si vede dai cuscini deformati del divano, dai soprammobili giallo ottone, dalle immagini religiose sparse ovunque.

Si siede sull'unica poltrona. In realtà ci si lancia fin quasi ad affondarci dentro. Io mi metto su una sedia e appoggio i gomiti sul tavolo. Mi premo le mani sugli occhi e sospiro.

«È stata una spina nel fianco» sbotta Simo dal nulla.

Mi ridesto e lo guardo confusa. «Chi?».

«Carlotta. È stata una spina nel fianco» ripete. «Ha rotto le palle a tutti, allo skatepark. Doveva sapere dove fossi finita tu. Non trovando risposte, ha tartassato Johnny. Che a sua volta ha tartassato me. Insomma, una rottura di palle continua, questa tua amica».

Non mi piace il tono che sta usando. È sgradevole. Mi pare una specie di attacco personale, così mi butto sulla difensiva.

«Non eri mica costretto a portarla» dico. «Potevi solo dirle dov'ero e basta».

Lui sospira, cambia posizione sulla poltrona e alza le sopracciglia. «Ci ho pensato, infatti. Non sono ancora certo di aver fatto la cosa giusta portandomela dietro». Fa una pausa, mi scruta con una serietà che mi spaventa. «Dopo tutta quella storia allo skatepark con quel cretino di Claudio, mi pare strano che tu voglia avere ancora a che fare con lei». E su quel lei pone un accento diverso, come d'insulto.

«Be', sono successe... cose, sì. Ma poi abbiamo fatto pace» minimizzo.

«Linda» riprende, più deciso «non per farmi i cazzi tuoi, ma ho bisogno di sapere come stanno le cose tra voi due. Cioè, sul serio. Ho fatto un errore a portarla qui?».

«Oddio, no».

«Eppure io ho la sensazione di aver toppato. So che c'è lei dietro ai tuoi... chiamiamoli cambiamenti. E non intendo in positivo. Quante volte in questi giorni sei stata a terra? Dimmi un po', quante volte hai pianto da quando la conosci?».

Mi scruta da cima a fondo, tanto che sento l'impulso di coprirmi con il maglioncino.

«Guardati. Non ti ho mai vista così debole» prosegue indicandomi con una mano.

La scelta di questa parola, debole, mi colpisce. Perché ha ragione. È proprio così che mi sento.

«Ho avuto giorni migliori, se è questo che intendi. E questa cosa della nonna, be', non ha aiutato».

«Ah, non provarci neanche. Eri così ben prima che tua nonna morisse» risponde pronto. «Quindi te lo chiedo e basta. È colpa sua? Di Carlotta?».

Devo fare un grandissimo sforzo per contenere il fastidio che mi provoca il suo tono di accusa verso di lei.

«No» sbotto. «Non è colpa di nessuno».

«Attenta» mi ammonisce. Si alza, prende ancora un'altra sigaretta. «Non puntare la tua rabbia su di me. So che ti do fastidio, ma non voglio essere quello che ha aiutato Carlotta a spezzarti il cuore più d'una volta, ok?». Se la accende. «Ho già il mio a cui pensare».

Quindi è per questo che fa lo stronzo, penso. È davvero arrabbiato. Ma non con me, né con Carlotta. Con Gaia. Forse persino con se stesso.

«Tutto bene con...?» sto per chiedergli. Lui mi anticipa brusco.

«Non adesso. Ne parleremo, se ci sarà bisogno, solo non adesso».

«Simo» sbuffo esasperata «ma cosa vuoi che ti dica? Mi piace Carlotta. Più che una semplice amica. Questo però lo sai già, e allora che altro vuoi da me?».

Gira per la stanza, insofferente. Poi si ferma e punta gli occhi, mai così bui, su di me.

«So che a breve se ne andrà».

Colpita e affondata.

«Lo so» sibilo.

«E ti sta bene?».

Stavolta sono io a scattare in piedi, furiosa. «Non è che io possa chiederle di restare, ti pare?».

Al che lui abbassa la voce. Si toglie la sigaretta dalla bocca. Inspira.

«Allora qual è il senso di tutto questo?» chiede. Fa una lunga pausa. «Non stai combattendo!» urla all'improvviso. «Non ci stai nemmeno provando! Poi non venire da me a chiedermi di raccoglierti da terra, cazzo!».

Non capisco perché, ma inizio a piangere. Di nuovo. Mi balla il labbro inferiore, mi scivola l'ennesima lacrima. Infine mando giù il groppo di delusione e chiedo: «Sei arrabbiato con me? Con me?».

Simo sembra tornare in sé. Si affretta a spegnere la sigaretta. Scuote la testa.

«No. No, scusami, dimentica quello che ho detto. Queste parole non erano destinate a te, in realtà».

Non rispondo. Non subito almeno. Aspetto che mi passi parte della rabbia che mi si è saldata allo stomaco. Cerco nel mio cervello quello che mi serve, e quando lo trovo mi schiarisco la voce.

«Quando hai capito che mi piaceva Carlotta, allo skatepark, ti ricordi cosa mi hai detto?» chiedo, ma senza attendere la sua replica. «Per avere qualcosa che ancora non hai, devi fare qualcosa che ancora non hai fatto». Lo guardo. «Se vale per me, vale anche per te».

Si lascia andare su una sedia, buttandosi sullo schienale. È come se potessi assistere alla sua lotta interiore. Accenna un sorriso beffardo, poi cerca il cellulare in tasca. Infine si alza e va a fare la telefonata che sa di dover fare.

Lo guardo chiudere la porta, svuotata ma contenta, in un certo senso. Poi sposto gli occhi verso le scale che portano al piano di sopra.

Sospiro.

Vado a fare quel che so di dover fare.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora