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Simone è il migliore, e su questo ci siamo già capiti.

Se avessi altri cugini sono sicura che sarebbe il mio preferito, però è l'unico che ho, quindi il problema nemmeno si pone.

Sia io che lui siamo figli unici e viviamo nella stessa città. Nell'ultimo anno, cioè da quando è diventato maggiorenne, si è immolato ad accompagnatore ufficiale di concerti. Se non fosse stato per Simo mi sarei persa i Muse e i Subsonica a Milano – band che senza di lui nemmeno avrei cominciato ad amare. Ha combattuto con la mamma come un pazzo finché si è arresa e mi ha dato il permesso di andarci, ma a un patto: che lei non dovesse sborsare un solo euro. E allora rieccolo, il mio eroe moderno, pronto a sborsare più di cento euro di soli biglietti più pernottamento e autostrada. Senza battere ciglio.

Facile capire perché lo consideri più come un fratello maggiore che non come un cugino.

E poi, è stato lui a insegnarmi ad andare sullo skate.

Non credo sia stato intenzionale a dirla tutta. È che i miei avevano bisogno di un babysitter (gratis) che badasse a me mentre loro lavoravano come schiavi, e i miei zii lo avevano usato come vittima sacrificale.

Diciamo che lo skate è stato un effetto collaterale di un pomeriggio in cui Simo non era affatto felice di tirarsi dietro una undicenne imbronciata. Avevamo appena litigato, non ricordo neanche per cosa, e lui detestava l'idea di restare solo in casa con me. Così, come ogni volta, mi aveva detto di prepararmi per andare allo skatepark, luogo in cui stando al copione io avrei dovuto starmene zitta e buona mentre lui se la spassava con i suoi amici.

Nonostante mi fosse evidente che Simo avrebbe preferito ammazzarmi piuttosto che portarmi con sé, io non stavo nella pelle. Perché semplicemente adoravo lo skatepark, era come un club segreto a cui io, per pura fortuna, avevo accesso. Così mi infilai al volo le Converse e gli corsi dietro, lui sul suo deck e io sulle mie gambe.

Avevo già passato ore e ore a guardare lui e il suo gruppo. Avevo già preso familiarità con lo slang di quel posto. Conoscevo i nomi dei trick, dei ragazzi, delle tavole. Li guardavo schizzare sulle rampe come animali a caccia nel loro habitat. Saltavano, cadevano, coi piedi facevano girare gli skate in aria. E poi esultavano, sempre. Si filmavano mentre io, dal mio posto dietro le quinte, mi chiedevo: perché non posso farlo anche io?

Finché quel pomeriggio decisi che sì, potevo farlo anche io.

Fu una mossa azzardata, un po' per noia e un po' per dispetto a Simo, che era davvero insopportabile. Non mi degnava di uno sguardo e non mi aveva nemmeno dato due spicci per andare al bar a prendere qualcosa.

Così tagliai la testa al toro. Chiesi in prestito lo skate a un ragazzino, più o meno della mia età. Mi sembrava il più debole, e infatti accettò, anche se un po' riluttante. Ero convinta di potercela fare, ormai avevo visto così tanta teoria che la pratica doveva essere uno scherzo.

Non andò proprio così. Anzi, affatto. Non appena misi il piede sulla tavola, feci un volo sull'asfalto che mi rovinò le ginocchia, le mani e un gomito. Fu allora che Simo mi vide e sbiancò.

Alla mamma non aveva mai detto dove mi portava durante tutti quei pomeriggi. Lei era convinta che ce ne stessimo a casa, a guardare la tivù o a fare le imitazioni delle voci davanti al ventilatore acceso – cosa che, per inciso, facevamo.

Ma lei non sapeva dello skatepark. E se mi avesse ritrovata in quelle condizioni, Simo poteva dire addio alle sue ore di libertà. Ai suoi amici.

Corse da me col panico negli occhi. Era così agitato che mi sentii in colpa come non mai. Non mi chiese mai di mentire per aiutarlo, come se una parte di lui si sentisse responsabile per quella caduta al punto da accettare tutte le conseguenze.

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