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Siamo tutte e tre a casa di Daria. La stiamo aiutando con la tesina visto che la signora Mariardi non c'è.

Io sono in cucina a preparare la merenda quando sento delle grida trattenute, ma non per questo meno acute. Poi, risate.

Corro in camera di Daria.

«Be'? Cosa c'è di tanto esaltante nella Kristallnacht?» chiedo.

Carlotta è stesa sul tappeto a pancia in su, col cellulare stretto al petto. Daria, sul letto, cerca di allungarsi verso di lei.

«Eddai, fammi leggere!» la implora.

Vorrei darmi una coltellata in mezzo agli occhi. Non voglio vederla gioire dei messaggi di qualcun altro. Perché è chiaro: si tratta di Edoardo. Dopo la partita di calcetto ci ha messo altri tre giorni a contattarla, un tempo studiato. Non troppo, ma nemmeno troppo poco.

Resto aggrappata alla soglia della porta, fingendo di aver lasciato qualcosa in sospeso in cucina. Così ho la scusa di andarmene al momento del bisogno.

«Allora? Che dice?» chiedo sforzandomi di sorridere.

«Vuole vederci sabato» risponde Carlotta. Si mette a sedere a gambe incrociate e legge di nuovo il messaggio. «Questo sabato!».

«Ma tutte e tre?» chiede Daria.

«Sì, tutte e tre. Vorrebbe provare a filmarci».

«Ottimo!».

Io non rispondo. E me ne accorgo solo quando Daria e Carlotta mi guardano coi sorrisi in sospeso.

«Tu puoi venire, giusto?» chiede Carlotta.

E rieccola: ora sì che mi vede. Quella patina di idiozia che le vela lo sguardo quando parla di Edoardo se ne va, come un sipario alzato.

«Non so, forse Simo...» inizio titubante.

«Eddai, tuo cugino lo vedi sempre!» protesta Daria. «Non farmi fare la terza incomoda!».

Carlotta ride. Io ci provo, ma ci riesco male.

«Oh, il bollitore» mento.

Poi sparisco in cucina, dove mi appoggio al tavolo coi pugni chiusi.

Quel dannato sabato arriva. Ventuno aprile.

Usciamo da scuola e decidiamo di andare a casa di Carlotta. Non propongo neanche di arrivarci in skate: so già che la distanza aumenterebbe le probabilità di arrivare in ritardo, o quantomeno di doverci preparare di fretta. E si capisce che nessuna delle mie due amiche lo desidera.

Abbiamo scelto casa sua perché, anche se dovessero esserci i suoi genitori, non sarebbe un problema. La mamma di Carlotta, Mary Margaret, è gentile con tutti a scuola; suo padre invece è un tipo dalla battuta sempre pronta. Entrambi, insomma, sono adulti che non ci fanno pesare il fatto di essere tali.

Detta così sembra che io e Daria, nelle nostre case, stiamo male. Non è proprio così, diciamo che si respirano climi diversi a casa Di Feo e a casa Mariardi.

Io, per esempio, ho "cassa integrazione" sulla cronologia di Google. Voglio capire, ma voglio anche starne fuori. Quando entro in cucina i miei cambiano discorso, abbassano i toni. Mi fanno sentire una stupida e inutile bambina. Una parte di me ringrazia e va avanti, ma un'altra – più piccola e probabilmente più sveglia – mi dice di non sottovalutare questi silenzi, queste occhiate, le bollette lasciate ripiegate all'ingresso per giorni.

Daria, invece, deve ribellarsi a un genitore tiranno senza farglielo capire. Sente la mancanza del padre e soffre la presenza della madre, che non apprezza la nuova sicurezza della figlia, non apprezza Carlotta ("troppo esplosiva, cerca sempre le attenzioni dei maschi!", testuali parole). Più di ogni altra cosa non apprezza lo skate, una cosa "da drogati" secondo lei. Vede la figlia prendere il largo e non lo sopporta. Per questo Daria ha sempre nello zaino le salviettine struccanti: prima di tornare a casa, passa nei bagni di scuola e si lava la faccia, rimuovendo ogni traccia di quella perfezione che tanto urta sua mamma.

Da Carlotta tutto questo è un miraggio, lontano come quando ci si risveglia da un incubo eppure ancora lì, sullo stomaco, pronto a spaventarti appena te ne ricordi.

Carlotta non ha bisogno di una doppia vita. Con sua madre ha un rapporto privilegiato, una cosa alla Rory e Lorelai Gilmore. Con suo padre diventa una ragazza tutta coccole. Per questo andiamo da lei. Abbiamo bisogno di un clima disteso prima di buttarci a capofitto nel mondo di YouTube. E dei ragazzi.

Saliamo sull'autobus e ci mettiamo nei posti a quattro. Carlotta si siede vicina a me, Daria di fronte. Si infila le cuffie e la perdiamo. Io neanche cerco le mie nello zaino, so di averle dimenticate sul comodino stamattina. Sbuffo.

«Vuoi una?» mi chiede Carlotta, porgendomi uno dei due auricolari.

Accetto. Le nostre teste sono vicine, così vicine che sento il profumo del suo shampoo. So già qual è. Al supermercato, la settimana scorsa, ho vagato per tutta la corsia, aprendo e annusando i flaconi. Il suo è camomilla e miele.

Non ci muoviamo. Un po' perché non vogliamo far cadere le cuffie, un po' perché (presumo) siamo perse nei nostri pensieri. Mi immagino a cosa stia pensando lei, e mi intristisco al punto che sto per dirle: no, non ce la faccio, andate voi, io non posso.

«Senti questa» dice invece lei. Fa partire Nights with You di MØ. Non contenta, apre anche la pagina del testo e mi pianta il telefono in mano. «Bellissima canzone, è uscita l'anno scorso ma è ancora tra le mie preferite».

Io non la conosco. Leggo le prime parole e mi fermo. Ricomincio da capo. Ho come la sensazione di aver capito male un segreto importantissimo.

Ragazza, sei bellissima.

Mi sta di nuovo parlando in codice, forse?

Anche se potresti non sentirti sempre così, ma lo sei.

Possibile che Carlotta mi abbia messo in mano il testo della canzone perché vuole dirmi qualcosa? Vorrei girarmi, guardarla negli occhi per chiederle senza parlare: ho capito bene? Sei come me? Vuoi quello che voglio io o mi prendi in giro?

Voglio solo passare le notti con te.

Non mi muovo. La sua testa si appoggia sulla mia spalla. E io giuro che, piuttosto che farla spostare da lì, mi pietrifico in questa posizione.

Come tua madre ha detto di non fare.

Avvampo. So che lei non può vederlo, ma nonostante tutto la sento ridere piano, una lieve aritmia nel respiro, e penso che trovi divertente il mio imbarazzo.

Sì, mi imbarazzo. Perché un conto è immaginare quello che non dovrei da sola, in camera, di notte, certa della mia segretezza; un altro invece è fantasticare su di lei di giorno, in pubblico, con il suo profumo su di me.

Devo fermarmi, qui e subito.

Do un lieve strattone con la testa e mi cade la cuffia. Le restituisco il telefono e subito dopo fingo che qualcuno mi stia chiamando, così posso rifiutare l'auricolare che Carlotta mi sta ripassando e isolarmi per un attimo o due.

«Sì, ciao papà» mento come una bambina impacciata. Ma Carlotta non mi sta più guardando, ora. Sta cambiando canzone e io sono libera di fissare fuori dal finestrino, stravolta.

Porca miseria.

Davvero, non capisco. Sul mio pianeta ci sono solo io, da sola, oppure c'è anche Carlotta?

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