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E invece mi preoccupo eccome.

Perché il giorno dopo mi è chiaro fin da subito che Carlotta non è davvero la mia Carlotta.

È svampita. È tornata in modalità pavone, come dicevamo io e Daria prima di conoscerla. Vuole farsi notare a tutti i costi, a partire dall'abbigliamento, che mi pare davvero troppo rivelatore se consideriamo che stiamo andando a una partita di calcetto.

Quando Mary Margaret ci lascia al centro sportivo, io sento subito il disagio riempirmi il corpo. Mi maledico per aver acconsentito, proprio come succede sempre con Daria quando c'è da andare a un compleanno o a una festa.

Ora mi sono fatta fregare anche da Carlotta. Che sta praticamente correndo verso un gruppo di ragazzi poco più avanti.

«Merda» impreco mentre tento di starle dietro.

Sono circa una decina. Non indossano divise, solo magliette vecchie. Da una parte iniziano a raggrupparsi le t-shirt bianche, dall'altra le nere. Io guardo Carlotta andare lì, decisa come mai prima d'ora, e mi spavento. Mi blocco.

Saluta Edoardo con un bacio sulla guancia. Così, subito, senza esitazione. Ma, cavolo, l'hai visto solo una volta, vorrei dirle. Perché tutta questa confidenza?

Parla a turno con ognuno di loro. Si presenta, sorride, stringe mani. Sta mettendo in campo la miglior versione di sé, come se volesse vendersi. Deve piacere per forza a tutti, vero? Non le basta mai.

Poi si volta verso di me. Devo ammettere che ci impiega un po' a rendersi conto che mi sono fermata a parecchi passi di distanza, ma alla fine lo nota. Mi fa cenno di avvicinarmi. Controvoglia, eseguo.

Gli sguardi che mi accolgono – anzi, che mi squadrano a raggi X – mi fanno contorcere lo stomaco. Nonostante la felpa e i jeans, mi sento esposta. Nuda, oserei dire. Il risultato è che mentre lei scambia battute pronte e complimenti, io sto a fissarmi la punta delle scarpe come una cretina.

Poi, dopo un tempo che mi pare interminabile, i ragazzi si avviano al campetto. Io e Carlotta li seguiamo senza fretta, così restiamo un po' indietro.

«Che bei tipi» comincia, tutta soddisfatta. «Tu che dici? Quale ti piace di più?».

Mi fermo. La fisso per capire se stia scherzando o sia seria. «Nessuno».

«Come, nessuno?». Ride, mi prende per mano e mi fa ricominciare a camminare. «Dovrà pur esserci qualcuno che ti ha colpito più degli altri».

«Perché?» sbotto. «Perché deve piacermi per forza uno di quelli là? Non hai pensato che magari il "calciatore pompato di orgoglio e molto probabilmente idiota" non è il mio tipo?».

Ora è lei a bloccarsi. Mi studia come se mi fossi appena materializzata lì dal nulla.

«Whoa» mi prende in giro con gli occhi. «Sei nervosetta, oggi. E sentiamo» prosegue, per nulla offesa dal mio tono «quale sarebbe il tuo tipo?».

Tu. Tu, cazzo, tu sei il mio unico tipo. Tu!

Digrigno i denti e mi stringo nelle spalle. «Boh. Di sicuro nessuno di... loro».

Carlotta sospira. Ancora una volta mi guida. Troviamo una panchina sulla quale sederci, proprio a lato del campetto. Quando torna a parlarmi, i suoi occhi sono puntati su Edoardo che fa riscaldamento.

«E va bene, ok. Però si dà il caso che il mio, di tipo, sia esattamente quello là» sussurra salutando verso di lui.

E così se ne va un altro pezzo del mio cuore.

Il tempo non è mai stato così lento. Questa non è una partita, è un supplizio.

Continuo a guardare l'ora sul cellulare sperando che le sette arrivino subito dopo le cinque e mezza, ma no. Non funziona così. È un po' come l'acqua della pasta che non bolle mai, se la guardi. Quindi decido di nascondere il telefono in tasca.

Provo a seguire il gioco, ma le urla starnazzanti di Carlotta che fa il tifo mi deconcentrano. Allora provo a contare i gol, però dopo il quarto perdo il filo. Così ci rinuncio. Adotto la tattica "sala d'attesa dal dottore": gioco a Candy Crush.

«Wow» fa Carlotta. «Potresti almeno fingere di divertirti».

«E perché?» chiedo senza staccare gli occhi dalle mie caramelle colorate. «Io non mi voglio scopare nessuno di questi tizi».

Non appena la frase mi esce dalla bocca, sento l'aria attorno a noi congelarsi, i suoi occhi che mi bruciano la pelle.

Trattiene un insulto. La sento sospirare. Di punto in bianco smette di tifare. E io, ovviamente, inizio a sentirmi una merda un secondo dopo aver pronunciato quelle parole.

Di nuovo, metto il cellulare in tasca.

«Ok, scusa» dico. «Mi spiace. Non volevo».

Non si gira neanche a guardarmi. «Sì, ok».

«Carlotta» ripeto mortificata. «Mi dispiace davvero».

«Sì» sibila. «Ho detto ok».

Ma è chiaro che non è ok. Il suo tono si è inacidito, il suo sorriso – spigoloso – è rivolto solo ai maschi. A me non viene data neanche la parvenza di confidenza.

E poi, per fortuna, arriva la fine della partita. I ragazzi si complimentano l'un l'altro, altri si insultano, e poi spariscono a farsi la doccia. Tutti tranne Edoardo, che si apparta con Carlotta. È così sudato che le mie narici si immaginano la puzza.

Eccola che torna a essere tutta zucchero e ciglia lunghe. Dio, non vedo l'ora di andare da Simo. Questa serata è arrivata a un punto così basso che può solo migliorare.

O almeno, spero. In realtà mi sbaglio. Perché nel momento esatto in cui Edoardo sparisce negli spogliatoi e Carlotta si dirige verso di me col fuoco negli occhi, mi sono chiare due cose. La prima è che dovrò chiederle scusa chissà quante altre volte. La seconda è che sta per farmela pagare.

«Senti» comincia con il broncio e le mani affondate nelle tasche del giubbino di jeans «io adesso vado a fare aperitivo con Edo e i suoi amici».

Scherza. Sta scherzando per forza. Ha promesso che alle sette al massimo ce ne saremmo andate. Ha promesso!

«Scusa, come?!» sbotto incredula. «E io?».

«Tu cosa?».

«Io come cazzo ci arrivo al compleanno di Simo?» quasi urlo.

Lei fa un passo indietro e mi guarda con una smorfia. «Intanto, ti calmi. E poi... se proprio ci tieni, ti faccio venire a prendere da mia madre. Certo, sarebbe imbarazzante per me spiegarle perché tu te ne vai mentre io resto. Penserà anche lei che voglio scoparmi l'intero gruppo? Che dici?».

È come ricevere un pugno. Non ci credo che mi sta parlando a questo modo. Non è da lei.

«Però io mantengo le promesse» continua, ponendo l'accento su quell'io come se fosse un insulto per me. «Perciò, se proprio devo... dimmelo e la chiamo».

È incredibile. È riuscita a intrappolarmi in una situazione in cui, comunque la si rigiri, lei ne esce vincitrice. Le darei una medaglia, se solo non fossi paralizzata dalla rabbia.

«Sai che c'è» sbotto. «Non ho bisogno di te. Me la cavo da sola».

Non aspetto neanche la sua risposta. Sono così fuori di me che vorrei piangere.

Le volto le spalle e mi avvio, non so neanche verso dove. Cerco solo di mettere una distanza accettabile tra di noi prima di prendere il telefono e fare una chiamata.

Risponde al secondo squillo.

«Johnny? Sì, ciao. Ascolta, non è che potresti farmi un favore?».

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora