È solo un paio di ore dopo che io e Carlotta riusciamo a mettere a letto Daria.
Siamo tornate a casa con la navetta delle tre. Per tutto il tragitto Daria non ha fatto che disperarsi. Non tanto perché Marco abbia forzato la mano o l'abbia rifiutata, no. Questo non è successo. Sono stati i suoi amici a umiliarla. Di fronte a tutti, Marco compreso, che ha riso insieme a tutti gli altri.
Una volta a casa la consoliamo, la strucchiamo, la accarezziamo finché lei crolla sotto il piumone di Carlotta, e io un po' la invidio. Dopodiché restiamo ancora una volta io e lei.
Ho gli occhi gonfi di stanchezza e di alcol, la testa che rimbomba dopo aver vomitato fuori dalla discoteca e lo stomaco sottosopra, ma sono lieta che Daria non abbia vissuto di peggio, stasera.
«Mamma mia, sto di merda» dico mentre ci richiudiamo la porta alle spalle.
«Mettiti comoda anche tu, ti aspetto in cucina con acqua calda e limone» propone lei.
E per me va benissimo, nonostante siano le quattro e mezza e ogni cellula del mio corpo aneli ad arrivare al cuscino il prima possibile. Non me lo spiego, ma con Carlotta la concezione del tempo cambia: diventa sempre tardi troppo presto.
Mi strucco, mi lavo la faccia e poi mi trascino in cucina nel modo più silenzioso possibile. La trovo in piedi dietro l'isola, al centro della cucina, che riempie due tazze. Non appena mi scorge sorride. E io un po' ci resto secca. Perché la trovo infinitamente più bella ora – pallida, stanca, avvolta in un pigiama peloso e coi capelli spettinati – che non prima, in discoteca, quando era tirata a lucido e attraeva qualsiasi essere vivente.
Ha le occhiaie anche lei, mi dico. È umana. Perfetta, ma umana.
Mi avvicino e mi siedo sullo sgabello di fronte, reggendomi la testa con le mani.
«Posso dirti che il tuo mondo è decisamente più impegnativo del mio?».
«In effetti credo sia stata una serata abbastanza piena, tra quei deficienti che ci ballavano addosso e la storia di Daria».
«Che razza di coglione devi essere per dire a una ragazza – che nemmeno conosci! – che è super scopabile, ma solo con un sacchetto in testa? Dio mio, se li rivedo li accoppo».
«Cafoni» concorda lei mentre mi allunga la tazza. «Tu però bevi, adesso. Non ho dubbi che accopperesti chiunque, ma devi prima smaltire la sbornia, mia cara Principessa Guerriera».
Sorseggio piano e lascio la sensazione di orgoglio pervadermi insieme al calore della bevanda. L'ho difesa e se n'è accorta: punto per me.
«Ma i maschi ti saltano sempre addosso così, in discoteca?» chiedo poi, contenta di aver scacciato la nausea. L'ultima cosa che voglio è vomitare di nuovo.
Lei si stringe nelle spalle. «Dipende. Ma stasera c'eri anche tu con me, B.».
B.
Lascia che la frase aleggi tra me e lei. Mi lusinga. E mi piace che mi chiami così. È la prima volta che lo fa, di solito per lei sono Belinda, tutto intero. Questa "B.", invece, ha un che di intimo. Come se dovesse sussurrarmi in fretta un segreto. Come se dicesse a me, e a me soltanto: vieni qui.
«Non guardavano mica me» la correggo dopo qualche istante. «E lo sai».
Lei beve e fa una smorfia sarcastica. «Oh, io invece credo proprio di sì». Mette giù la tazza e si allunga verso di me, mettendomi una ciocca di capelli dietro un orecchio. «E credo anche di esserne un po' gelosa, sai?».
Mi va di traverso l'acqua e limone. Lei indietreggia appena e io la guardo in imbarazzo. Appena smetto di tossire, ripeto: «Gelosa?».
Forse voleva dire invidiosa, mi dico. Avrebbe più senso. Magari ha sbagliato parola, non sarebbe la prima volta che capita.
«Sì, gelosa» ribadisce invece lei, con uno strano sorriso in faccia. «Non voglio che qualche stupido uomo si metta a fare il cretino con la mia migliore amica». Mi fissa dritto negli occhi. «Io ci tengo, a te».
Detto questo, si gira verso l'altro lato della cucina e mi dà le spalle. Butta un paio di cucchiaini nel lavello, li sciacqua e poi torna verso di me mentre io sto cercando di non arrossire troppo.
«Anch'io ci tengo a te» rispondo con un filo di voce. Poi abbasso gli occhi.
«Be', l'ho visto!» dice. «Mi avresti baciata pur di liberarmi da quello stronzo dalla mano lunga». Ride e fa una pausa che dura pochissimo. Ma io la sento, forte e chiara. Ha aperto una crepa in un muro e ora vuole guardarci dentro. Infatti aggiunge: «Vero?».
Solo questo. Vero? Una parola corta, eppure così spietata e diretta.
Cosa si aspetta che le dica? Che l'avrei baciata per molto meno? Oppure che era solo una finta, una messinscena per allontanare attenzioni indesiderate? Che cosa vuole da me? Perché io so cosa voglio da lei.
È un attimo, e il mio cervello va in cortocircuito. Non dico niente, non subito almeno. Mi limito a finire di bere dalla tazza, poi faccio il giro dell'isola e la metto anch'io nel lavello, così ho un momento per darle le spalle. Ora non mi vede. I secondi passano e io ancora non ho risposto niente, il che potrebbe anche essere interpretato male.
Oddio, no.
E se le do fastidio? E se non vuole? E se si allontana da me perché pensa che sia strana?
Merda.
«Be', mi sa che ero ubriaca...» dico infine.
Nel momento in cui pronuncio queste parole, so di aver sprecato un'occasione d'oro.
Non ho il coraggio di voltarmi a guardarla. La sento sospirare e non so neanche immaginare quale sia la sua espressione. È delusa? È sollevata? Ho dato la risposta che si aspettava?
Cristo, è tutto così ingarbugliato e difficile.
È Carlotta a togliere entrambe da questo stallo. Con uno sbadiglio. È forzato, sonoro, quasi fastidioso nella quiete della casa.
«Caspita, sono quasi le cinque» dice, come se lo avesse notato solo ora. «Dobbiamo davvero andare a dormire. Vieni, ti faccio vedere la stanza degli ospiti».
Ma la sua voce è diversa. Sbrigativa, persino più acuta. E quando io finalmente ho il coraggio di voltarmi, lei non è più lì con me.
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Ocean Eyes
RomanceLinda ha sedici anni e una vita normalissima. Le sue giornate ruotano intorno a tre cose: skate, amici e scuola. Almeno finché non arriva Carlotta...