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Poi arriva giovedì 24 maggio.

Nessuno si aspetta mai che cose importanti possano accadere in un giorno così ordinario. E invece.

Vado a scuola decisa ad affrontare Daria. Parlare con Carlotta mi ha schiarito le idee. Non ci sto a distruggere tutto per colpa di Claudio. Daria resterà qui con me, l'anno prossimo, a differenza di Carlotta. Sento che ho il dovere di chiederle come sta.

Entro in aula con una nuova speranza. Ma lei è in ritardo, come suo solito, e la Cironna non perdona questa abitudine. Così la chiama alla lavagna e la interroga, proprio come il primo giorno dopo le vacanze natalizie.

Mentre se ne sta in piedi, con le spalle rivolte al resto della classe, capisco cosa intendesse Carlotta.

Daria non è mai venuta a scuola con dei jeans così attillati. Mi dà l'idea che fatichi a muoversi, così fasciata. Le scarpe non sono le sue solite Adidas, bensì sandali. Io so che lei odia i sandali, perché odia le sue caviglie. E sul braccio, lo stesso che sta alzando per scrivere un risultato che non sa, c'è un livido violaceo.

Cristo. Sono stata così presa dalla mia rabbia, dalla mia solitudine, che non me ne sono nemmeno accorta?

Mi affretto a guardare il risultato sul libro. Quando lei si volta, in cerca di aiuto per evitare l'ennesimo quattro in matematica, cerco di intercettare il suo sguardo.

«Tre – nove – quattro» scandisco bene, di modo che possa leggermi il labiale. «Trecentonovantaquattro!» ripeto, aiutandomi con le mani.

Lei resta ferma, voltata appena verso la professoressa che già sta togliendo il tappo alla penna rossa.

«Allora, Mariardi, facciamo notte? Ce lo abbiamo questo risultato o no?».

Mi lancia un'altra occhiata. Io la incoraggio con la testa. Daria scrive il risultato.

La Cironna si gira a controllare, svogliata, ed è costretta a riporre la penna rossa.

«Va bene, vai a posto, stavolta ti becchi un sei».

Accenno un sorriso mentre Daria va a sedersi. Lei ricambia appena. Però non ho il tempo di gioire. Perché all'improvviso bussano alla porta della nostra aula. Entra la bidella, con un foglio in mano, e dice: «Di Feo. Belinda Di Feo, c'è?».

La professoressa mi guarda, io alzo la mano.

«Sono io».

«Tuo padre è venuto a prenderti» continua. Si avvicina alla cattedra, consegna la giustificazione alla Cironna ma io non mi muovo.

«Perché?» chiedo, confusa.

«Vabbé, Di Feo, vai, su» mi incoraggia la prof. Al che obbedisco. Preparo lo zaino, mi alzo e saluto, con uno sguardo più attento in direzione di Daria.

Quando arrivo nell'atrio, trovo papà con gli occhi rossi dal pianto.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora