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Poi, una sera, papà bussa alla porta di camera mia.

«Ah, sei tu».

«Sì, la mamma stasera ha chiusura» comincia. «Siamo solo io e te». Fa una pausa, entra e si siede sul letto. «Più tre chili di maledetta insalata di riso. Si rigenera in frigo, secondo te? Sono giorni che la mangiamo ma è sempre lì».

Accenno un sorriso ma non rispondo.

«Perciò, ecco il piano: ti fai bella e ti porto fuori».

Cerco di opporre resistenza, ma io sono troppo svogliata e lui troppo convinto. Riesco a ottenere giusto qualche minuto per cambiarmi. Farmi bella, come dice lui, è fuori discussione. Al massimo posso puntare ad accettabile.

Mi infilo un paio di pantaloncini di jeans, una canottiera e una camicia a quadri che quasi mi arriva al ginocchio. Vans ai piedi e ci sono.

«Oh, adesso sì» mi sorride papà mentre mi tiene aperta la porta. Passo sotto al suo braccio proteso verso lo stipite. Mi sento piccola. «Andiamo a mangiare una cosa seria, dai».

Mi porta al Nana Piccolo Bistrò.

Ci siamo andati una volta sola, un giorno d'inverno di terza elementare. Anche in quell'occasione eravamo soli, io e lui. Mi ero finta malata a scuola. Lui era venuto a prendermi. Una volta scoperta la bugia ci aveva riso sopra. Aveva capito da un pezzo che temevo la maestra di matematica, ma non me ne aveva fatto una colpa. Anzi, alla faccia della maestra Sara, aveva detto, ora ce ne andiamo a mangiare un bel po' di pesciolini fritti e non ci pensiamo più. Quel giorno poi era uscito il sole ed eravamo andati al mare a fare un pupazzo di sabbia.

Parcheggiamo non molto lontano, ma abbastanza da camminare in silenzio per tutta via Corfù, con i fiori colorati che scendono dai balconi sopra le nostre teste, quasi a volerci accarezzare i capelli. Ci sediamo fuori, a un tavolo all'aperto, e lascio che sia lui a ordinare per entrambi.

«Cameriere, ci porti un bel po' di pesciolini fritti, per favore!».

Gli sorrido. Eppure ho un grumo di tristezza in gola che quasi mi strozza. Vedo il suo tentativo di farmi stare meglio e in qualche modo sento di non meritarlo. Perché sto di nuovo mentendo, e stavolta non solo a lui o alla maestra Sara.

Stavolta, fingo di stare bene quando invece non è così. Ironico, vero?

«Allora, Linda, che succede?».

Poggia i gomiti sul tavolino in ferro battuto e mi scruta a fondo. Io mi distendo sulla sedia, nel disperato e impossibile tentativo di allontanarmi da questa domanda, ma non da lui.

«Niente».

«Perché non vai più sullo skate?».

Scrollo le spalle, ma so che non basta. Devo sforzarmi di pronunciare i nomi a voce alta. «Daria è presa dal suo nuovo ragazzo». Mi fermo. Inspiro. «Carlotta dalla maturità».

Con le mani inizio a lisciare i manici di ferro della sedia. Mi dico che forse non ha sentito il tremore nella voce. Intanto le dita mi si impregnano di una puzza metallica, che sa di sporco.

«Non abbiamo smesso di andarci, siamo solo...».

In rottura. Diverse. Arrabbiate. Lontane. Perse.

Mi basta scegliere una di queste parole per essere sincera, davvero una qualsiasi, invece dico solo: «... impegnate».

Impegnate. Come se ancora valesse la pena difendere un'amicizia che si è sgretolata così in fretta. Come se ancora ci fosse qualcosa di recuperabile.

Papà mi guarda, ma io non riesco a fare lo stesso se non per pochi attimi. Me ne sto sotto questo cielo blu elettrico, bucato da stelle azzurre, circondata da cibo squisito e brusii spensierati e l'unica cosa che mi chiedo è: come posso cambiare pelle? Come esco da questo schifo di tunnel?

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora