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Il giorno in cui conosco per davvero Carlotta piove, per questo sono sull'autobus e non sullo skate.

Il mio umore è a terra per tre ragioni, tempo schifoso a parte.

La prima: è l'otto di gennaio, e ogni studente sa che tipo di spleen implichi questo giorno. Tecnicamente dovrebbe essere il sette, ma quest'anno il karma ci ha regalato ventiquattro ore in più.

La seconda: ho il raffreddore, con naso rosso e screpolato annesso, fazzoletti usati nelle tasche e via dicendo.

La terza: le vacanze dalla nonna sono state tutt'altro che rilassanti. Non per lei, poverina, ogni volta che mi vede mi tratta come se fossi l'ultima umana rimasta sulla Terra. È che è difficile scappare da tua madre quando lei è in ferie e tu sei in una città che non conosci. E poi, a capodanno sono andata a letto a mezzanotte e venti.

Insomma, gran bell'andazzo.

Riconosco i ragazzi della mia scuola mano a mano che salgono e mostrano l'abbonamento. Nessuno dice una parola. Chiudono l'ombrello e lasciano una scia di acqua sporca per terra. Se sono fortunati, trovano un amico di buon cuore – come me – che ha tenuto loro il posto; altrimenti zaino in spalla e via, stipati come le sardine.

Di Daria, nemmeno l'ombra. Ci sono due possibili fermate da cui può salire, a seconda del genitore da cui è rimasta a dormire. Evidentemente è ancora una volta prigioniera della madre. Le ho scritto, ma non risponde. Il che è molto strano, visto che ha passato le vacanze su WhatsApp a raccontarmi di questo tizio che ha conosciuto per chat.

Aspetto. Ho messo lo zaino sul sedile accanto al mio. Ora che la capienza del bus sta arrivando al limite comincio a sentirmi a disagio, come se il bon ton dei trasporti imponesse di liberare quel seggiolino verde e grigio, a un certo punto.

Devo resistere una sola fermata, un'altra e basta: se Daria non sale lì, allora lascio il posto al più veloce.

Però. C'è un però. Non ho considerato Carlotta.

Sì, ancora lei.

La vedo salire col suo cappotto rosso fuoco a mezza gamba, in tinta col rossetto che le ha regalato sua madre a Natale (e che su Instagram non manca mai di indicare con l'hashtag Etna Red).

Si fa largo tra la folla a forza di sorrisi e scuse. La sua piega, dio solo sa come, regge.

Non realizzo che sta venendo verso di me finché non la vedo effettivamente aprire bocca in mia direzione. E anche lì non ne sono del tutto certa. Mi giro, stavolta controllo che non stia parlando a qualcun altro. Tipo a qualche sua compagna di classe.

No, nessuno alle mie spalle pare risponderle. Così mi volto verso di lei e, confusa, mi tolgo una cuffia, una sola. Mi vergogno di sentire la mia voce impastata di sonno e muco dire: «Come, scusa?».

«Ho detto» ripete avvicinandosi «se stai aspettando qualcuno o se posso sedermi qui».

Butto un occhio alle porte. L'autobus accosta alla fermata. Ma dov'è finita Daria?

«In realtà sì» ammetto. «Ma a questo punto non credo che verrà».

Quindi, sotto gli sguardi torvi di chi è stato in piedi tutto quel tempo accanto a me, libero il sedile e faccio per rimettermi l'auricolare a testa bassa.

Ma, ancora una volta, non ho considerato Carlotta. Perché stavolta è lei che si gira verso di me, come se fosse la milionesima volta che prendiamo l'autobus insieme. Senza un ciao né mezza presentazione, attacca bottone.

«Spero non fosse un ragazzo ad averti dato buca».

«In che senso, scusa?».

«Intendo, il posto che stavi tenendo».

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