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Vengo esonerata dall'obbligo di impacchettare roba. Il fatto che io abbia perso la testa sta rallentando il trasferimento, ma non l'ha fermato. E per fortuna.

Ora è assurdo quanto io non veda l'ora di andarmene. Il mio mondo è diventato un inferno nel giro di una notte. Devo mettermi in salvo.

Passo i pomeriggi – e le notti – a fissare il soffitto o davanti al computer. Nonostante il caldo sto seduta per terra con un lenzuolo a coprirmi tutta. Mi rifugio in questa tenda dove si fatica a respirare e guardo video su YouTube riguardo il mondo LGBTQ+. Leggo notizie su questa o quella ragazza lesbica picchiata dal padre, dallo zio, dai compagni di scuola; una addirittura è stata spinta giù dalle scale dalla madre, con tutti i suoi averi e un calcio in culo. Un altro invece è stato sottoposto con la forza a una terapia di conversione sessuale.

Mi dico: mi è andata benone, tutto sommato. Nessuno mi ha cacciata di casa o mandata all'ospedale. Per ora.

Anche se, in realtà, mia madre vorrebbe. Eccome. Non perché voglia spaccarmi la faccia, bensì perché vuole sentirsi dire da un laureato in medicina che le mie rotelline funzionano ancora tutte.

Pensa di bisbigliare, e magari lo fa davvero, ma io la sento quando dice a papà: dobbiamo portarla da un dottore. La sento quando ipotizza che mi abbiano drogata e malmenata e stuprata. Certo, potrei tranquillizzarla e dirle: no, mamma, ti sbagli, queste cose non sono successe. Ma poi dovrei spiegarle allora cosa è davvero successo. E non mi va.

Così come non mi va di aprire la porta di camera mia anche se qualcuno sta bussando, ora. Infatti resto immobile.

«È permesso?» fa una voce debole che riconosco all'istante.

Con la testa sbuco da sotto il lenzuolo. «Ah. Ciao. Sei tu».

Daria richiude la porta. Mi gira le spalle. So che lo sta facendo perché ha bisogno di ricomporre la sua espressione dopo avermi vista rasata a zero. Lo fanno tutti ormai. Papà è il campione: prima di rivolgermi qualsiasi parola ha bisogno di guardare per terra per qualche secondo, e solo dopo procede.

È lo stesso anche per Daria. Mi squadra e impallidisce.

«Che cazzo...» dice in un sussurro. Non ce la fa a mantenere lo sguardo, così lo sposta in giro. Sui muri spogli, sull'armadio vuoto, sulla libreria nuda.

Oh, Cristo. Speravo di risparmiarmi almeno questa rottura di palle.

«Ma che...?».

Io esco del tutto dalla mia tana e mi sgranchisco la schiena. Nell'alzarmi però gira tutto, e quasi cado sul letto. Devo ricordarmi di bere acqua, ogni tanto.

«Che succede? Vai via?».

Inspiro e sbuffo. «Be', mi sa di sì».

I suoi occhi scattano da un angolo all'altro, ma evitano con cura di posarsi su di me.

«E dove? Quando?» chiede con voce strozzata. Io mi stringo nelle spalle. «Avevi intenzione di dirmelo o pensavi semplicemente di svanire nel nulla?».

È quello che ho chiesto anch'io a Carlotta, dopo il suo orale. Rido. Una risata un po' crudele, a dire il vero, che la costringe a puntare gli occhi nei miei.

«Linda. Che cazzo ridi. Ti ho fatto una domanda».

«Più d'una, a dire il vero» puntualizzo. «E per risponderti: a Mantova, non lo so e... no, non avevo intenzione di dirtelo».

È incredula. Lo vedo che vorrebbe incazzarsi, è carica come una molla. Ma al tempo stesso non vuole prendersela con me, perché è chiaro che mi vede come una vittima collaterale della sua relazione con Claudio. Se ne sta lì, con una frase strozzata in gola che alla fine si riduce a un semplice: «Linda. Sul serio».

«Daria. Sono seria» le faccio il verso. Le indico camera mia. «Ti pare che ci mettiamo a impacchettare roba solo per farti uno scherzo?».

Non dice niente. Cammina un po' in giro per la stanza e alla fine si lascia cadere sul letto.

«Non me lo avresti detto?» chiede. «Volevi andartene e lasciarmi qui senza neanche avvisarmi?».

Ci penso.

Ma certo che te l'avrei detto, solo che prima volevo vederti rompere con quello schifoso bastardo. Volevo esserne sicura, e se ti avessi detto che ti abbandonavo anch'io, oltre a quell'altra traditrice di merda, tu saresti rimasta con lui. Perché sei debole e bisognosa di un affetto continuo, morboso persino. Cresci, cazzo. Secondo te ci trasferiamo per fare un dispetto a te? A te? E poi che cosa ti devo ancora? Mi sa che è un po' tardi per fare l'amica onnipresente e premurosa. Hai perso questo diritto quando hai scelto Claudio al posto mio. Perché avere un ragazzo era così importante, giusto? Dovevi per forza perdere la verginità o il mondo sarebbe crollato, no? Ma per favore.

Questo. Questo vorrei dirle.

E lo faccio. Sul serio, dico esattamente queste parole, una dopo l'altra, così come le ho pensate. Perché magari Linda, la Linda di prima, le avrebbe corrette, persino taciute. Ma Belinda, la Belinda di adesso, lei no. Lei punta e spara.

E, a giudicare dalla faccia di Daria, colpisce anche.

«Cosa... Cosa?».

Gli occhi le si riempiono. Io mantengo lo sguardo duro.

«Hai capito. Ma se vuoi te lo ripeto».

«Io... Io ti ho portata via da lì» sussurra con le lacrime che iniziano a inondarle le guance.

«Ma tu sei anche una delle ragioni per cui ci sono finita, lì» puntualizzo.

Apre la bocca per ribattere. Poi ci ripensa e la chiude.

So che non è vero. O forse sì. Che importa, ormai. Quello che mi preme, ora, è liberarmi di Daria il prima possibile e tornare agli affari miei. Tanto io e lei ci saremmo perse comunque, alla fine. Meglio che sia adesso. Un bel taglio netto e arrivederci a tutti quanti.

Si alza dal letto. Mi volta le spalle. Si asciuga le guance e tira su col naso.

«Tu non fai sul serio» riparte dopo un po'.

«Credi?». Mi indico la testa. «Ti sembra un gioco, Daria? Ti sembra davvero l'ennesima disgrazia di cui vuoi farti protagonista a tutti i costi anche se non c'entri un cazzo?».

Serra le palpebre e scuote la testa. «Ma che ti è successo... che ti è successo...».

Oh, Gesù. Non la reggo. Sono io quella che dovrebbe piangere, non lei. Sospiro.

«Esci. Vattene» dico sbrigativa. Mi dirigo verso la porta e gliela apro. «Fuori. È stato un piacere ma ora ciao».

Resta impalata in mezzo alla stanza. Trema tutta, dalla testa ai piedi, e le cola il naso.

«Linda...» mi prega.

«Belinda» la correggo. Poi con la testa le faccio cenno di avviarsi. «Mi hai sentita? Ho detto ciao».

«Ma tutto quello... tutto quello che abbiamo passato insieme? La nostra amicizia? La butti così? Tutti questi anni... dovranno pur significare qualcosa!».

Rido, sprezzante. «Fai un favore a te stessa e stai zitta. Ok, Daria? Zitta. Tu avresti buttato tutto per molto meno. Di fatto, mi hai buttata via dopo trenta secondi che hai conosciuto Claudio. Quindi, ti prego. Zitta e fuori».

Piange e mi guarda, immobile. Ma che devo fare per liberarmi di lei? Puntarle addosso un coltello?

«FUORI!» grido infine con tutta la forza che ho.

Lei sussulta. Abbassa la testa e corre via. La sento singhiozzare per il corridoio e sbattere la porta. Il mio collo è rigido da far paura, ma è nulla in confronto al piombo che sento nelle gambe.

Per qualche secondo regna il silenzio più vuoto che abbia mai sentito. Il suono della porta sbattuta sembra essersi portato dietro ogni cosa. È come se vedessi un buco nero aprirsi un po' alla volta proprio là dove Daria è sparita. Un buco che ha appena cominciato a risucchiare ogni cosa della mia vita.

Credo che non ritornerà più. Mai più. Né lei, né io.

Dopo poco mia madre si affaccia dalla cucina, allarmata. «Tutto ok? Stai bene?».

Neanche le rispondo. Le volto le spalle e mi richiudo in camera. A chiave, stavolta.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora