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Quindi.

A questo punto penso sia abbastanza chiaro che A, non sono popolare a scuola; B, mi viene più facile essere amica dei maschi e di conseguenza C, non vado molto d'accordo con le ragazze.

L'unica eccezione è Daria.

Siamo in classe insieme dalla prima elementare. Per un periodo di tempo, quando i suoi erano separati ma sulla carta ancora sposati, ha vissuto nel condominio di fronte al mio. Era bello per entrambe, perché essendo figlie uniche era come avere una sorella acquisita, senza però la rottura di starci tra i piedi ventiquattro ore su ventiquattro. Passavamo tutti i pomeriggi assieme, a fare i compiti, ad ascoltare musica oppure a ossessionarci sulle stesse serie tv.

Poi però i Mariardi hanno divorziato sul serio. È successo più o meno quattro anni fa. Hanno venduto casa e Daria è andata a vivere con la madre.

Non è stato facile, per nessuna di noi due. Eppure sono certa che per lei sia stato peggio, molto peggio. Perché io in quel periodo ho cominciato ad andare sullo skate, mentre lei si è ritrovata da sola a fronteggiare la solitudine forzata e la separazione ufficiale dei suoi genitori.

Detta così può sembrare che sia una ragazza depressa e taciturna. No, non lo è. Anzi, è proprio il contrario. La sua parlantina è come un biglietto da visita. Lo sanno tutti, persino Simo. Ancora oggi la chiama Dariapedia, visto che ha sempre una risposta per tutto.

Per questo oggi, quando la vedo seduta in classe con le cuffie nelle orecchie, mi meraviglio. Mi ha vista entrare, mi ha salutata con un cenno, ma non ha detto una parola.

Continuo a stare all'erta anche mentre mi siedo al mio posto e tolgo dallo zaino astuccio e diario. Niente. Ancora nemmeno una sillaba.

Guardo l'orologio. È addirittura arrivata quindici minuti prima della campanella. Lei, che è sempre in ritardo.

No. Qualcosa non va.

Le sfilo un auricolare e aspetto che mi guardi. In effetti manca una scintilla di energia nei suoi occhi verdi.

«Tutto a posto, Da?».

Annuisce. Prima che si riappropri della cuffia sinistra, la fermo per un braccio.

«Sicura? Come mai non stai, tipo, chiacchierando?».

«Che c'è, se sto tranquilla sono per forza depressa?».

«Onestamente? Sì. Da quando ti conosco non ti ho mai vista stare zitta per più di cinque secondi di fila» dico. La mia sincerità riesce a strapparle un sorriso debole, così insisto. «C'è qualcosa che non va?».

Sposta lo sguardo su Marta, Francesca e Gianluca, a.k.a. il trio che nessuno vorrebbe ritrovarsi in classe: la vip, il friendzonato e la leccapiedi. Stanno parlando a bassa voce tra di loro.

«Li ho di nuovo beccati a prenderci per il culo» ammette dopo qualche secondo di silenzio. «Sapevi che hanno un gruppo WhatsApp in cui si mandano le foto che noi postiamo? Fanno i meme su di noi».

Li osservo anch'io. Non che la cosa mi sorprenda. Devo ammettere che all'inizio ci rimanevo male, ma poi me ne sono fatta una ragione. Che senso ha sforzarsi di piacere a chi non mi piace?

Però a Daria importa, a quanto pare, e neanche questo mi stupisce. Così decido di tirarle su il morale. Prendo il cellulare e imposto la suoneria a tutto volume. In modo molto plateale punto la fotocamera su di loro, come farebbe mio padre. Gianluca se n'è accorto, ma prima che possa dirmi qualcosa scatto. Il click riecheggia nell'aula, che ormai è quasi piena. Tutti si girano verso di me.

«Che fai, vuoi un poster?» sbotta Marta, irritata.

«Macché, no. Ho solo pensato che mi serve del materiale nuovo per il mio blog martafrancescaegianlucasonocosìfichi.com» dico a voce alta, di modo che tutti sentano. Qualcuno inizia a ridere. «Mi concederete mai un'intervista? Ognuno di noi pende dalle vostre labbra».

Daria trattiene un sorriso, ma sotto il banco mi dà una gomitata.

«Smettila, dai» sussurra divertita.

«Ma non hai niente di meglio da fare?» fa Gianluca, ben lieto di avere l'occasione di difendere la sua amata.

«Prossimo articolo: riuscirà mai il buon Gian a uscire dalla Friendzone? E Francesca» proseguo imperterrita, tra le risate sempre più forti «riuscirà mai ad ammettere che sta con Marta solo perché in realtà è cotta marcia del buon Gian?».

Tanto basta a farli uscire dall'aula. Mi lanciano qualche insulto, è vero, ma non è una novità. Ormai mi scivolano addosso. Almeno in un colpo solo sono riuscita in ben due intenti: mi sono tolta qualche sassolino dalla scarpa e ho tirato su il morale a Daria.

Poi mi rigiro verso di lei.

«Allora, sicura che fosse colpa loro? Non c'è altro?».

«Nah» dice con una scrollata di spalle. Ma poi si ferma, il che significa che sta per vuotare il sacco. E infatti. «A parte che ieri sera ho litigato con la mamma, di nuovo. Ho fatto la voce più grossa di lei e me ne sono andata di casa sbattendo la porta, con l'idea di andare a dormire da papà. Ma poi sono arrivata da lui e indovina un po'?» chiede, amareggiata. «C'era una signorina in sala da pranzo. E se ti dico che avrà avuto forse cinque o sei anni più di me, non esagero mica».

«Ma sul serio?».

«Già. Ed era pure bruttina».

«Ci scommetto».

«A ogni modo papà mi ha mandata via» continua. «Per tutta la notte non ho fatto che chiedermi: non è assurdo che un'amicizia nata per caso tra due bambine di sei anni possa durare più di un matrimonio tra due persone che – si presume – si siano scelte?».

«Mi dispiace» dico. «Però lo sai che non è colpa tua, vero?».

«Sì, come no».

«Dico davvero. Sei l'unica cosa decente uscita da quel matrimonio. Forse addirittura da quei due. È un miracolo che tu sia cresciuta senza manie omicide».

«Per ora» mi corregge.

«Già, per ora» concordo. «E poi che hai fatto? Dopo che tuo padre non ti ha fatta entrare».

Lei sbuffa e si stringe nelle spalle. «Eh, niente. Siccome non volevo tornare dalla mamma con la coda tra le gambe, sono stata in giro da sola come un'imbecille finché ha iniziato a fare troppo freddo».

Le do un colpo sulla spalla. «Scema! Lo sai che puoi venire sempre da me in questi casi. Perché non me l'hai detto?».

«Perché era domenica, e so che la domenica stai con tuo cugino e... e i suoi amici».

Sospiro. «Sei stata proprio una babbea, Da. Che razza di problemi ti fai?».

«Lo so, lo so...» dice scuotendo la testa. «È solo che mi sentivo così incazzata che volevo restare sola. Ti è mai capitato?».

«Certo».

«E cosa fai in quei momenti?».

Ci penso. «Be', se non chiamo te e non chiamo Simo» comincio «in linea di massima prendo lo skate e vado dove mi pare. Lungomare. Alla Rocca. Anche se il top restano i Portici Ercolani. Lì si va che è una meraviglia» spiego. «E ci resto finché smetto di sentirmi sola. È come se riuscissi a seminare la rabbia, a buttarla nel fiume».

Daria mi guarda. Non risponde subito, il che è strano. Mi fissa come se stesse cercando di decifrare un codice.

«Quindi tu usi lo skate come sfogo» conclude.

«Sì. Forse è questo che ti ci vuole» propongo.

«Uno skate?».

«No, no» rido. «Una valvola di sfogo. Un hobby. Insomma, qualcosa in cui rifugiarti».

Daria sta per aggiungere qualcosa, ma viene interrotta sia dalla campanella della prima ora che dall'ingresso del professor Boniardi. Di punto in bianco tutti si alzano per salutare, la classe piomba nel silenzio e lui attacca a parlare di Carlo Magno.

Però Daria non mi sembra tornata del tutto in sé. Non ancora. Così strappo un pezzo di carta e scrivo.

Halloween da me? Tanto dubito che Marta ci inviterà ancora a qualche sua festa LOL

Glielo passo. Legge. Annuisce.

E finalmente riesco a strapparle un sorriso vero.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora