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Decidiamo di fare una piccola deviazione e viziarci con un aperitivo al Qubetti. Qualsiasi cosa, pur di prolungare ancora questo incontro.

Carlotta rimette il suo piccolo Penny nello zaino. Io invece mi piazzo sullo skate e vado piano, di modo da assecondare il suo passo.

La giornata è diventata un po' bipolare. Ogni tanto esce il sole, mostrandoci una luce pazzesca che buca i nuvoloni come se i raggi fossero enormi spade; poi all'improvviso le nubi prendono il sopravvento e sembra quasi buio. A me non interessa, bene o male sto comunque passando un bel pomeriggio.

Continuiamo a parlare. Lo facciamo sul serio, di cose più personali. Per esempio scopro che Carlotta non ha la più pallida idea di cosa fare dopo la maturità. Scopro che ha una paura matta della pratica a scuola guida, che adora Lorde, che i suoi braccialetti sono d'acciaio, altrimenti anneriscono e non lo sopporta.

Vista così, mentre si apre e sorseggia un analcolico, mi sembra una Carlotta diversa da quella del Medi. Qui, con me, è pacata. La sua voce segue la stessa intonazione, non ci sono alti né bassi improvvisi, quasi una melodia. Non gesticola in modo eccessivo, insomma non fa – come direbbe Daria – il pavone. Né, come pensavo io, si comporta da zircone. Forse brilla davvero di luce tutta sua. Forse l'ho sottovalutata.

Una volta finito il momento aperitivo, ci dirigiamo passeggiando verso la Rotonda a Mare. Non lo diciamo apertamente, ma è come se volessimo ritardare il più possibile il momento di salutarci. Non ci importa che ormai sia praticamente buio.

Cammina e ascolta per intero le domande che le faccio prima di iniziare a rispondere. Se ci fate caso, non lo fanno in molti. Quando tocca a me dirle qualcosa, non posso evitare di sentirmi noiosa. A parte lo skate, di cui comunque le ho già parlato a sufficienza, non c'è molto altro da raccontare.

O forse no.

«Sai, c'è un'altra cosa che non sai» dico a un certo punto. «Mi chiamano tutti Linda ma non mi chiamo davvero così».

«Come no?».

«No. In realtà ho preso il nome da mia nonna...» sorrido, un po' in imbarazzo e un po' contenta di averla incuriosita. «Perciò non è proprio, come dire, modernissimo».

«Dai, spara. Giuro che non rido».

«Ci mancherebbe anche!» le rispondo. «Ti sto insegnando aggratis!».

«Ok, giusto. Dai, dimmi. Quindi qual è il tuo vero nome?» mi chiede.

Inspiro. Faccio una pausa drammatica, infine ammetto: «Belinda».

«Ma è super cute» ribatte pronta.

«Insomma». Mi stringo nelle spalle. «Diciamo che Linda suona meglio».

«Ma suona anche incompleto, no? È come se tu nascondessi una parte di te solo per "suonare meglio". Alle orecchie di chi, poi?».

Resto spiazzata. Nel frattempo scendiamo le scale del molo e cominciamo a riempirci le scarpe di sabbia.

«Sul serio non lo trovi un po' da vecchia?».

«Puoi dire vintage. Oppure old school. Ma non vecchia!» ride. «Che importa cosa penso io, comunque?» chiede sedendosi. Io sono ancora in piedi, così la guardo dall'alto. A un tratto ogni piccola parte di me vorrebbe risponderle: certo che importa, è la sola cosa che importa.

Il pensiero mi spiazza al punto che non mi rendo conto di essermi impalata.

«A te quale piace di più?» riprende poi, facendomi segno di sedermi accanto a lei. «Linda o Belinda?».

Mi accomodo, un po' confusa. «Mi sono fatta chiamare Linda per sedici anni» rispondo. «Ormai ci sono abituata».

«Ma non è quello che ti ho chiesto».

Mi fissa, anzi: ci fissiamo. Ha la punta del naso rossa dal freddo, le labbra di un rosa omogeneo. Gli occhi azzurri, oggi, sono bordati di blu. Poi mi rendo conto che anche lei sta studiando la mia faccia, e chissà cosa vede. Senza poterlo evitare arrossisco. Lei deve accorgersene, perché all'improvviso si volta a fissare il mare, come se volesse restituirmi una sorta di privacy. A me non resta che il suo profilo, preciso e armonioso, e una confusione che aumenta.

«Per quanto mi riguarda» conclude infine «trovo che Belinda sia più bello».

«Più bello?».

«È unico» dice. «Sii unica».

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