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Finalmente la settimana finisce e arriva sabato. Un giorno bello. Bello e intenso.

Non solo per il sole, che ha alzato la temperatura di un paio di gradi, ma anche per quello che succede.

Dopo pranzo volo in camera che ho ancora la piadina sullo stomaco. La mamma mi sgrida per non averla aiutata a sparecchiare, papà le dice di lasciarmi stare. Entrambi sanno che devo vedere Simo, però per qualche motivo questa cosa infastidisce sempre uno solo dei miei genitori.

Prendo il mio cardigan preferito – una XXL a rombi arancioni, rossi e blu – e me lo allaccio sopra l'unica maglietta termica che ho. Vans ai piedi, cappello al contrario in testa e sono pronta.

«Ci vediamo più tardi» urlo uscendo. Chiudo la porta prima di sentire i soliti "guarda il telefono ogni tanto!" e i "si cena alle otto, con o senza di te!".

Scendo tre piani di corsa, apro il portone e inspiro, ferma sul marciapiede.

Per le prossime ore sono libera.

Libera.

Simo è già lì. Accanto a lui ci sono Johnny e Omar. È lui il primo a salutarmi da lontano con una mano alzata.

«Oi, eccoti» mi accoglie Simo. Da lunedì gli è già cresciuta la barba, e l'ha lasciata. Da questo deduco che l'appuntamento di domani deve essere abbastanza importante per lui.

«Come va, Linda bella?» mi chiede Johnny. Io lo guardo e arrossisco. Evito di incrociare lo sguardo di Simo che, ne sono certa, se la sta ridendo sotto i baffi.

«Bene, bene» rispondo guardandomi la punta delle scarpe. «Allora che facciamo, cominciamo?».

«Daje!» risponde Omar.

E, come se qualcuno avesse appena urlato VIA, partiamo a razzo, ognuno in una direzione diversa. È così che funziona. C'è sempre un momento iniziale di raccoglimento tra noi e i nostri skate. Poi, un po' alla volta, il gruppo si ricompatta, come delle api che volano intorno allo stesso alveare dopo aver saccheggiato i fiori nei dintorni.

Simo è in gran forma. Si è fatto la fama da quando è stato ad Austin. Non ha vinto nulla agli X Games, per carità, ma il solo fatto di esserci andato, di aver preso un aereo per mettersi alla prova con altri skater, gli ha conferito un'aurea di solennità. Ha dimostrato a tutti quanto ci tiene. E non ha la minima intenzione di mollare la presa.

Io invece decido di perfezionare il mio boardslide. Non è altro che un trick in cui la parte inferiore della tavola scivola su un gradino o un cordolo. Non ho portato la cera per facilitare la scivolata. Per me non ha senso. Se davvero voglio andarmene in giro per il mondo solo con lo skate, allora devo imparare a usare i marciapiedi e i corrimano delle scale così come sono, senza cera o paraffina. Altrimenti è barare, no?

I primi tentativi sono discreti, anche se non abbastanza buoni. Mi slaccio il cardigan quasi subito, il freddo è un problema di chi ci sta a guardare dal parcheggio, non mio.

Provo ancora e ancora, cercando di non farmi distrarre dalle grida di un'altra crew appena arrivata. Perdo la cognizione del tempo. Gioco con il mio equilibrio per capire dove spostarlo.

Ma poi esagero.

Butto il corpo troppo in avanti. All'improvviso lo skate non è più sotto i miei piedi. Quindi torno alla realtà – o meglio, la realtà torna dritta da me. In faccia.

Cerco di attutire il colpo con le mani, che si grattugiano come parmigiano sulla pasta; le braccia non mi reggono, i gomiti si piegano come stuzzicadenti marci e il mio naso non ringrazia. È un impatto veloce, quasi come se la mia faccia volesse dare un bacio al cemento, ma solo chi ha preso una palla da basket sul setto nasale può comprenderne il dolore. Figurarsi una botta del genere.

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