È Daria a trovarmi.
Chiama sua madre. Mi portano a casa mia nel cuore della notte senza che io dica una parola, non una sola.
La mamma, nel vedermi, si porta una mano alla bocca e piange.
Dentro quell'espressione di sgomento trovo più paura di quanta ce ne sia nel mio riflesso allo specchio.
Mi chiedono così tante volte "chi è stato?" che perdo il conto. Daria non lo sa. Potrebbe tirare a indovinare, certo, ma si metterebbe nei guai anche lei.
Ma poi, chi è stato, in fin dei conti? Sì, Claudio. Edoardo, anche. Ma pure Carlotta. E io stessa, che mi sono messa nella condizione della vittima, senza mai reagire.
Chi è stato, davvero?
Non vengo più lasciata da sola, anche se è un po' ironico, non trovate? Ovunque io sia, ora c'è sempre qualcuno con me. Sempre. Eppure nessuno sa. Se non è questa la solitudine, allora cos'è?
Persino in bagno. Il giorno dopo la festa, mi pare di avere il pubblico, in bagno.
Mentre accendo il rasoio elettrico, papà mi guarda dalla soglia, scuro in volto. La mamma sta dietro di me. Mi aiuta sulla nuca, nei punti in cui non sono certa di arrivare.
Io stessa mi osservo, incuriosita da un aspetto che non riconosco più come il mio. Mi sento catapultata dentro un corpo estraneo.
Penso: i miei capelli non saranno mai più così, io non sarò mai più così.
Mi dico: nessuno mi romperà, mai più.
Ed è lì che lo decido. Mentre i capelli continuano a cadere come foglie in autunno, scomposti, svolazzanti, mentre scopro la vera forma della mia testa, decido che non farò mai più della paura la mia seconda pelle.
Ho sbagliato io. Non dovevo permettere che nulla di tutto questo mi accadesse. Dovevo difendere me stessa con più convinzione, con più orgoglio. Da Carlotta, da Claudio, da tutti.
Non commetterò lo stesso errore un'altra volta. Poco ma sicuro.
«Aspetta, qui faccio io» mi dice la mamma. Prende il rasoio elettrico dalle mie mani e io la lascio fare.
«Non ci riesco» sbotta papà. È insofferente. Non accetta che io non gli dia un nome con cui prendersela. «Non ci riesco».
Esce. Restiamo io e lei.
Mi stupisce la sua fermezza. Dopo il primo pianto iniziale, quando mi ha vista, non si è più lasciata andare. Ora, nella durezza, trovo che ci somigliamo di più.
«Ho le orecchie a sventola» dico.
Lei non si ferma. Non sorride. Continua il suo lavoro di precisione. «Non è vero».
«Sì, invece. Guarda». Con l'indice me ne ripiego una.
Spegne il rasoio e si siede sul bordo della vasca. Mi fissa, ma nello specchio.
«Sì, un po'. Hai ragione».
Mi sciacquo la nuca e la faccia. Butto quel che resta della mia chioma nella spazzatura, insieme agli assorbenti e ai fazzoletti usati. Poi passo la mano sul cranio.
Punge in un senso, è morbido nell'altro. È strano. Sono affascinata da questa doppia natura.
«Trasforma le tue debolezze in forze, Linda».
Un silenzio prepotente occupa la stanza dopo quella frase. Ci sono tante domande nell'aria, ma nessuna di noi due ha il coraggio di dar loro forma. Aspetto un attimo, poi la correggo.
«Belinda» dico, decisa a non nascondermi niente di questi mesi. Niente. «Da adesso in poi, dovete chiamarmi tutti Belinda».
La colgo di sorpresa, ma dopo poco annuisce. «Va bene».
Fa per uscire. Il suo passo è stanco, gli occhi ancor di più.
«Mamma» la fermo. «Quando ce ne andiamo?».
Sospira. «Pensavo odiassi l'idea».
«Non è la risposta alla mia domanda».
Lei si appoggia alla soglia con la schiena, con la testa. È come se avesse bisogno di essere sorretta da qualcosa, qualsiasi cosa, e un po' mi fa pena.
«È questo che vuoi, adesso?» mi chiede. «Andartene?».
Non ho neanche bisogno di pensarci. Mi pare la soluzione più ovvia. Andare dove nessuno mi conosce. Ricominciare. Ma, stavolta, con tante consapevolezze in più.
«Sì» rispondo secca. Quasi non riconosco la mia voce. «Sì. Voglio andare via».
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Ocean Eyes
RomanceLinda ha sedici anni e una vita normalissima. Le sue giornate ruotano intorno a tre cose: skate, amici e scuola. Almeno finché non arriva Carlotta...