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È disfatta.

È proprio questa la parola giusta, disfatta, perché pare che si stia scomponendo. Ogni parte di lei è fuori posto, come se volesse scappare dal suo corpo. I capelli sono schiacciati dalla pioggia, il suo viso è a chiazze rosse, persino le maniche della sua felpa sono storte e umide. Una quasi arriva a terra e le lascia una spalla scoperta.

È come se stesse lottando per tenere insieme pezzi che stanno esplodendo. Conosco la sensazione.

«Fuori di qui! Fuori!» urla la mamma.

Carlotta infila una parola dietro l'altra in un modo così disperato e veloce che non capisco cosa stia dicendo. Papà nel frattempo impreca e cerca di farmi scudo con un braccio.

Come se questo bastasse.

Lo scanso e mi faccio avanti in silenzio, calma. La mamma non la fa passare, e Carlotta non mi vede. Però io vedo lei. E devo dire che mi fa quasi piacere trovarla ridotta così. Certo, non è nulla in confronto a come stavo io, ma almeno soffre. Era ora.

«Ho solo bisogno di salutarla, la prego, la prego!».

«Te ne devi andare!» ringhia la mamma. «O giuro che chiamo i carabinieri! Hai capito? Fuori!».

«No, io devo vederla!».

Carlotta sguscia verso sinistra. È a questo punto che mi scorge. Ferma, nel mezzo dell'atrio, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo di pietra.

«Oddio...» le sfugge prima che le mani davanti alla bocca possano mozzarle la voce.

Mamma si volta. «Vittorio, portala fuori, portala in macchina e andiamo, per piacere».

Papà fa per prendermi da un braccio e trascinarmi in avanti, ma io mi divincolo con uno strattone.

«Andate voi in macchina» dico. «Io arrivo tra un minuto».

La mamma riattacca con le proteste sconnesse. Assolutamente no, non se ne parla nemmeno, non ti lascio sola con questa delinquente, io so che c'entra lei! C'entra lei e la ammazzo con le mie stesse mani se non se ne va ora!

Papà cerca di placarla, io li ignoro entrambi. Semplicemente fisso Carlotta, tutto il resto è ovattato.

Per la prima volta non ho l'istinto di correre ad abbracciarla. Non desidero perdonarla. Certo, sento di avere ancora un disperato bisogno del suo amore, dei suoi occhi che mi sorridono, ma esserne consapevole non fa che buttare benzina sul fuoco del mio odio per lei. È un sentimento neonato in me, è lì da pochi giorni, eppure cresce in fretta. Ha attecchito nel mio cuore e ora lo sta stritolando, come una radice umida e nera.

«Ho detto» sbotto con più decisione «che arrivo tra un minuto».

Cala il silenzio. Papà, invece che riprendere il mio braccio per portarmi via, prende quello della mamma. Che ancora non si arrende. Ancora non ci sta a lasciarmi sola con Carlotta per un ultimo, fottuto minuto.

«No! No. Io la denuncio, questa stronzetta, la denuncio!».

«Lisetta, dai, siamo qui fuori» dice papà.

«No!».

«Cristo santo, mamma!» urlo alla fine. «È lei che dovrebbe preoccuparsi di stare sola con me, non il contrario. Te lo assicuro».

Nel dirlo, non le levo gli occhi di dosso. Piange, piange senza dignità, molto più di Daria. Ma non più di me, la sera della sua festa. Ne deve versare di lacrime per pareggiare i conti.

Finalmente, i miei genitori escono dall'atrio – anche perché qualcuno ha cominciato ad affacciarsi alle porte e a chiedere cosa stia succedendo. Mamma lancia ancora un paio di minacce, tuttavia scivolano addosso a entrambe. Né io né Carlotta la stiamo ascoltando. Stiamo solo aspettando di restare sole.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora