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Una volta finito il pic-nic improvvisato, io e Carlotta torniamo allo skatepark. Abbiamo le pance piene di carboidrati e zuccheri in eccesso, ma che importa.

Propongo di cominciare dall'erba perché è più semplice.

Dal momento in cui arriviamo abbiamo gli occhi di tutti i ragazzi puntati su di noi. È strano, mi dico all'inizio. Voglio dire, mi si vede spesso da queste parti.

Poi però ci arrivo. Quando aiuto Carlotta a salire e scendere dallo skate tenendole le mani perché non perda l'equilibrio, lo vedo anch'io: è lei la novità. Una novità di bell'aspetto, perciò diventa una distrazione. Non solo per me, per tutti.

Alzo la testa per guardarmi indietro. C'è anche Claudio, il tizio basso e tarchiato. Ci fissa. Lo fa senza neanche la decenza di distogliere lo sguardo quando lo becco.

Sono io la prima a desistere. Mi rigiro verso Carlotta.

«Ok, mi fanno ufficialmente male le gambe» ammette ridendo.

«Oh, vedrai domattina» la avviso. «Dai, scendi, ti sei meritata una pausa. Se non altro abbiamo subito capito quale sia il tuo piede dominante» cerco di incoraggiarla.

Nel momento in cui le sue mani si staccano dalle mie, mi rendo conto che ho i palmi sudati. Spero non l'abbia notato.

«Perciò, tu quanto tempo fa hai cominciato?».

«Ah, vuoi prenderti una pausa lunga, eh?» scherzo. «Guarda che sullo skate posso diventare molto prolissa. Rischi lo svenimento».

«Dai, sono seria. Mi incuriosisce».

Allora le racconto com'è andata. Di Simo, dei nostri litigi iniziali, di come io sia entrata nel giro dei suoi amici, delle mie cadute peggiori. Ogni tanto riesco a farla ridere, e mi stupisco di quanto la sensazione di esserci riuscita io, io e non altri, mi renda orgogliosa.

Poi, dopo circa un quarto d'ora di mie chiacchiere, ci rimettiamo all'opera. Restiamo sempre sull'erba, perché oggi non è il caso di spingerla oltre. Ho paura che, se si facesse male subito, potrebbe non venire più.

La mia serenità continua a crescere, almeno finché qualcuno non si avvicina alle mie spalle. Guardo il sorriso di Carlotta passare da spensierato a imbarazzato.

«Possiamo... aiutarti?» chiede a chiunque ci sia dietro di me. Al che mi volto.

Claudio. È la prima volta che si avvicina.

«Secondo me sono io che posso aiutare te» comincia. Affonda le mani nelle tasche della sua felpa e con gli occhi passa da me a lei e viceversa. Alla fine si sofferma su Carlotta. «Se vuoi imparare, devi smettere di tenere le manine alla tua amica. Mica state ballando un walzer».

Non so cosa mi faccia arrabbiare di più, se la sua intromissione o il fatto che stia parlando come se io non ci fossi. Quindi affianco Carlotta e così facendo lo costringo a calcolare anche me.

«È il suo primo tentativo. Non preoccuparti, so quel che faccio».

«Ah, sì?» ribatte lui con un sorriso che mi fa salire il sangue al cervello. «Forse è meglio se chiami tuo cugino, mi pare più pratico».

Mi sento avvampare. Che razza di mossa infame, usare Simo come arma contro di me. E tra l'altro quando lui nemmeno c'è.

Cerco le parole per controbattere, sfoglio le pagine degli insulti nel mio cervello ma trovo solo spazi bianchi. Sono in tilt e sto facendo la figura della scema.

«O forse è meglio se ci appelliamo al mio emendamento preferito» comincia Carlotta dal nulla. «Quello del fatti i cazzi tuoi. Mai sentito?».

Claudio la guarda.

Il suo sorriso, ancora lì, ora si è gelato. Lo vedo stringere le mascelle. Si gira verso i suoi amici e sono sicura che nelle tasche ha le mani chiuse a pugno.

Quando ritorna a fissarci, il mio stomaco si contrae.

«Fate come vi pare» dice a denti stretti. Fa per andarsene, ma prima aggiunge anche uno "stronze!" che si sente forte e chiaro.

Io me ne sto lì, pietrificata sia per l'imbarazzo che per l'improvvisa paura. Non me lo aspettavo.

«Sai come lo chiamo questo?» chiede Carlotta non appena restiamo sole.

«Un deficiente?».

«Mansplaining. Sai cos'è?». Faccio di no con la testa. «È quell'atteggiamento da supponente che ha un uomo quando spiega qualcosa a una donna – anche quando lei ne sa già più di lui».

Prendo un bel respiro. Mando giù i litri di bile che mi sono risaliti in gola e cerco di sorriderle.

«Mi piace come parola» dico. «Cioè, no, odio questo concetto ma trovo la parola molto calzante».

«Ti capita spesso?».

«Di non essere presa sul serio? Solo se non c'è Simo nei dintorni. Il che fa schifo lo stesso, se non di più» rispondo amareggiata. «A te?».

«Ogni tanto. Diciamo che ho notato una cosa. Che se tieni al tuo aspetto, in qualche modo questo offusca tutte le altre capacità che hai, you know».

All'improvviso l'aria è cambiata. È bastato uno stupido qualsiasi per cancellare quello che avevamo costruito. Le nostre spalle si sono abbassate, e anche i nostri sorrisi. Così propongo di andare a fare un giro sul lungomare.

«Penserà che ce ne siamo andate per causa sua» mi fa notare Carlotta riferendosi a Claudio.

«E in un certo senso è così. Non so te» le dico «ma quando io vedo una cacca in un parco, cerco di starci alla larga».

La faccio ridere, di nuovo. Poi ci incamminiamo.

Va già meglio.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora