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È arrivato il momento di andarsene. Fuori, la pioggia viene giù scrosciante.

È quasi buio. Questo giorno è quasi alla fine. C'è solo da resistere un altro po'.

Me ne sto sulla soglia di camera mia a guardare i segni dei mobili sui muri. Penso che sto fuggendo prima io di Carlotta. Meglio così, del resto.

«Pronta?» chiede papà, sbucando in camera solo con la testa. «Dieci minuti e si parte, ok?».

Annuisco.

«Stai bene? Ti serve un altro po' di tempo?».

Non mi basterebbe una vita a digerire tutto questo, papà.

«No, no. Ci sono».

Chiudo la porta. Metto lo zainetto in spalla e cerco di mangiare con gli occhi questa casa mentre mi avvio. Ho come l'impressione che, appena uscirò da qui, il suo ricordo comincerà a svanire nella mia testa. E se da una parte non desidero altro – dimenticare tutto, tutto quanto – dall'altra non posso fare a meno di sentirmi abbandonata.

Papà chiama l'ascensore. Sono io l'ultima a guardare dentro casa Di Feo, illuminata da lampi fugaci e scossa da tuoni che fanno vibrare i vetri. Sono io quella che chiude il sipario con un sospiro e nessuna lacrima.

Scendiamo senza dire una parola per tre piani. Non mi guardo allo specchio, cosa che ho fatto per sedici anni. Papà non guarda me. È come se tra me e lui ora ci fosse un muro di imbarazzo e paura.

Quando le porte si riaprono, il silenzio si rompe.

C'è mamma nell'atrio. Sta gridando come una pazza. Vorrebbe spingere qualcuno fuori dal portone, incurante dell'eco che amplifica ogni suo insulto. Non riesco a mettere a fuoco con chi ce l'abbia finché lei si sposta.

Non mia madre, no. Lei resta ferma, come un muro. È Carlotta che si muove.

Carlotta è qui.

Ocean EyesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora