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Mi butto a faccia in giù sul letto e mi copro la testa con un cuscino soffice, che sa di lavanda. Come tutti i vestiti di Carlotta.

«Cretina, cretina, cretina!» mi dico con il naso schiacciato contro il copriletto.

Cerco di rilassarmi. Ormai è andata. È davvero meglio dormire, così mi infilo sotto le coperte fresche e cerco il tasto OFF nella testa.

Mi sdraio a pancia in su e mi rendo conto di quanto siano calde le mie gambe. Continuo a muoverle alla ricerca di un punto dove le lenzuola siano più fresche. Con un braccio spengo la luce sul comodino e mi copro gli occhi.

Sbuffo. Sono esausta, eppure non riesco a dormire. Non dormo perché ho oltrepassato la soglia della stanchezza sana e sono in quella devastante, che mi smonta la mente e mi innervosisce.

Devo rilassarmi. Pensare a cose belle, immagini confortanti. Che ne so, il mare d'inverno. Un cielo di montagna con le punte dei larici e i raggi del sole che ci passano attraverso. Organizzare il mio skate trip. Il caffè di metà mattina a scuola.

No, non funziona. Ho troppo caldo, quindi decido di sfilarmi i pantaloni del pigiama e lanciarli in un angolo della stanza.

Ok, così va un po' meglio. Passano i minuti, ma il mio cervello non vuole saperne di dormire. È come se stesse girando a mille, surriscaldandomi tutti i muscoli, tutti i pensieri. Torna su alcune immagini ricorrenti – Carlotta che mi tocca i capelli, Carlotta che balla, Carlotta che dice vero? – e me le mostra a rallentatore, ancora e ancora. Ecco un ingrandimento delle sue labbra rosa a forma di cuore. Ecco le sue ciglia chilometriche. Ed eccoti anche lo scollo del suo vestito!

Sospiro e mi metto a sedere contro la testiera del letto. Guardo l'ora sul cellulare: le cinque e quarantasette. Credo che finirò per fare il dritto.

Lascio ciondolare la testa contro il muro dietro di me. Ed è allora che mi viene in mente un pensiero, un pensiero che, come un fiammifero che sfiora una miccia, mi accende ogni terminazione nervosa.

Carlotta è dall'altra parte del muro. È dall'altra parte del muro. Per quel che ne so, potrebbe essere sveglia anche lei, potremmo essere spalle contro spalle o testa contro testa. Se lo volessimo, persino bocca contro bocca.

Mi giro e appoggio prima un palmo contro la parete, poi la guancia. È liscia e bianca, ma anche fredda e crudele. Quanto può essere spesso, questo muro? Posso attraversarlo col pensiero? E se sussurro il suo nome, mi sentirà?

Cristo. Sono diventata così patetica. Se ripenso a quante volte stasera ci siamo sfiorate e guardate...

Cosa succederebbe se adesso lei aprisse la porta? Se si infilasse sotto queste stesse coperte?

È un pensiero che mi fa male. Sul serio, è qualcosa di viscoso che pulsa in una parte precisa del mio corpo. So già che mi devo arrendere, perché proprio a lui, al mio povero corpo, stasera ho chiesto fin troppo.

L'ho soffocato in abiti non suoi. L'ho fatto ballare. L'ho fatto ubriacare. L'ho fatto toccare. Ora richiede di essere liberato da tutta l'energia accumulata. Lo so. Glielo devo. Anche perché non mi permetterà di dormire, finché non lo accontenterò.

Dannazione.

Mi ributto sotto le lenzuola, coprendomi fin sopra la testa, come se questo bastasse a tenere lontano il senso di colpa che già si affaccia. Sospiro e mi gratto gli occhi, poi mi giro su un fianco e mi abbraccio. No. Non è questa la posizione. Mi rimetto a pancia in su e mi arrendo.

Torno a dove ero rimasta.

A Carlotta che bussa, che chiede: posso? stai dormendo?

No, macché, vieni pure.

Daria di là s'è presa tutto il letto.

Be', qui c'è spazio.

Sicura che non t'importa? Non voglio disturbarti.

Ma di che, dai, vieni qui, accanto a me.

Ok.

Ok.

Caspita, sei bollente.

E tu sei ghiacciata.

Se ti abbraccio mi passi un po' del tuo calore? In cambio io ti rinfresco.

Sospiro e mi sforzo di non aprire gli occhi, immaginando di sentirla respirare sulla mia spalla. Immaginando di accucciarmi con la schiena contro la sua pancia. Lei il cucchiaio grande, io quello piccolo. Mi farei stringere, le permetterei di coprirmi con le braccia e scoprirmi con le mani. La sentirei sorridere, aiutarmi, capirmi. Chiedermi: sicura? E alla fine, dopo averle detto sì, dopo averle concesso di vedermi intera, mi girerei. La bacerei e la abbraccerei e ricominceremmo da capo, stavolta io il cucchiaio grande e lei quello piccolo. Le accarezzerei i capelli, le bacerei il collo, la vedrei per quello che è, sentirei com'è morbida e profumata e non la lascerei andare via da me. Mai. Chissà, magari la sentirei persino tremare.

Un po' come sto facendo io, adesso. Sola, in questa stanza non mia.

Il ritorno alla realtà è uno schiaffo.

Mi rendo conto di dove sono, cioè davvero. Mi rendo conto di cosa ho appena fatto, della mia stupida mano e del calore che finalmente ha trovato un punto da cui uscire per liberarmi. Vorrei andare in bagno, però ora ho troppo freddo per uscire da qui.

Cazzo. No. Quanto mi odio. Ci è voluto così poco a liberare il mio corpo, e ora ci vorrà così tanto per smaltire questo senso di colpa. Mi manca il fiato, eppure non posso tirare fuori la testa dalle coperte. Non voglio. Come farò a guardarla in faccia, domattina? Come farò a guardare me stessa in faccia, domattina? Come ho potuto passare questo limite senza nemmeno opporre resistenza?

Ora non si torna indietro. Ora io lo so, cosa sono, lo vedo con chiarezza. E non sono sicura che sia ok.

Mi giro su un fianco e mi abbraccio le ginocchia. Mi faccio più piccola che posso. L'istinto di correre a lavarmi è poca cosa in confronto alla vergogna che mi paralizza. Infine mi concedo all'ultimo disperato desiderio del mio corpo.

Piango.

Piango in silenzio fino ad addormentarmi.

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