19 (pt.1)

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Finalmente il 19 dicembre era arrivato. Da quando avevo avuto la notizia di dover capitanare la squadra durante la finale ho iniziato a contare le ore che mancavano al fischio d'inizio, ma quando quella mattina mi ero svegliata nel mio letto, quella sensazione di euforia ha lasciato il posto ad una di ansia terribile. Ci stavamo dirigendo in pullman verso l'albergo che ci avrebbe ospitato la notte subito dopo la partita (questo per evitare potenziali problemi di ordine pubblico, visto che il centro sportivo in cui avevamo alloggiato fino a quel momento era distante alcuni km dallo stadio) quando il mio telefono iniziò a vibrare a causa della videochiamata che mi stava inviando mia madre.

"Ciao, siete atterrati? Tutto bene?" ero felice che finalmente sarebbero venuti a guardarmi giocare.

"Si, tutto bene, siamo atterrati proprio ora, tuo padre sta ritirando il bagaglio!" rispose mia madre.

"Beh, fuori vi dovrebbe aspettare un autista che vi darà i biglietti e i pass per stasera e vi accompagnerà all'albergo e poi verrà a prendervi più tardi per portarvi a Wembley!" potevo vedere che c'era qualcosa che non andava nello sguardo di mia madre.
"Sei sicura che vada tutto bene, mamma?" chiesi ancora una volta.

"Si, si, tranquilla, ora devo lasciarti, però, sembra che tuo padre abbia qualche problema con la valigia. Ci vediamo più tardi!" disse frettolosamente.

Prima di poter rispondere al saluto lo schermo del mio telefono era diventato nuovamente nero, segno che la videochiamata era finita. Chissà cos'era successo o cosa stesse succedendo proprio in quel momento, ma non potevo pensarci ora, avevo una finale da giocare e la mia mente doveva restare concentrata su quello.

Ore dopo eravamo di nuovo su quel bus, a differenza di quella mattina c'era un silenzio assordante nel veicolo: la maggior parte di noi aveva indossato le cuffie, mentre altre guardavano semplicemente fuori dal finestrino o erano concentrate sui propri cellulari.
Non posso spiegare correttamente la sensazione che provavo, era un misto di ansia, orgoglio e responsabilità che mi facevano sentire un peso enorme sul petto. Arrivati nel parcheggio sotterraneo dello stadio potevo notare che il pullman dei nostri avversari era già parcheggiato, il che significava che avrei visto presto Lucy, durante l'ispezione del campo.
Le mie compagne erano quasi tutte uscite, ormai ero da sola e mi servivano quei secondi, perché non appena i miei piedi avrebbero toccato il suolo di Wembley tutto sarebbe iniziato.

Camminavamo nei corridoi della struttura con le nostre divise formali firmate Armani, tutte ordinate, impeccabili, eppure guardando le nostre facce chiunque avrebbe potuto vedere il terrore che nascondevano i nostri visi apparentemente così duri.
Ci fecero strada fino agli spogliatoi, dove posammo le nostre borse e poi, a gruppetti, iniziammo a raggiungere il campo; io, naturalmente, in compagnia di Martina.
Arrivate alla fine del tunnel la luce dei riflettori quasi ci abbagliò, facendomi vagare con gli occhi alla ricerca di una stabilità oculare. Fu in quel momento che la vidi in mezzo al campo insieme ad Alessia Russo, Ella Toone e Keira. La vista di quest'ultima fece tendere ogni muscolo del mio corpo, ma presto fui colta di sorpresa da qualcuno che urlava il mio nome e mi saltava addosso: era Aurora.
Non distolsi lo sguardo dalla mora e potei vedere come la sua testa scattò non appena sentii il mio nome uscire dalla bocca della mia compagna di nazionale.

A: "Dovresti andare a salutarla!" disse Aurora mettendosi di fronte a me e annullando il mio contatto visivo con l'inglese.

"Non posso, c'è Keira lì, non vorrei causare un omicidio che potrebbe far annullare la finale." sbuffai irritata.

M: "Beh, non credo che ce ne sarà bisogno, sta venendo qui con Alessia." disse la mia migliore amica con tono molto soddisfatto.

Lucy salutò prima Martina e Aurora, restando con loro per una chiacchiera, quindi nel frattempo Alessia venne da me porgendomi la mano. Quando finalmente la mora si degnò di venire nella mia direzione entrambe non sapevamo come salutarci senza sembrare troppo goffe. Alla fine allargai le braccia per farle capire che volevo un abbraccio, così si avvinghiò a me ed io potei posare la mia testa nell'incavo del suo collo lasciandole un bacio che le fece venire la pelle d'oca. Martina si schiarì la voce per richiamare la nostra attenzione, segno che, forse, il nostro contatto era durato troppo a lungo.

Il cuore nel palloneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora