Capitolo 276: Onorando molti e fidando in pochi

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I meldolesi erano accorsi come cavallette a Cusercoli, seguendo l'invito di Pandolfo Malatesta e avevano iniziato subito a mettere in difficoltà Achille Tiberti e i suoi.

L'animosità delle nuove truppe, arrivate a dare manforte a quelle poco organizzate e poco numerose guidate dal Gottifredi più giovane, stava facendo la differenza e i comandanti della Contessa Riario si videro costretti a scriverle di nuovo, chiedendole con maggiore insistenza o il permesso di ritirarsi o di ricevere rinforzi.

"Piuttosto – aveva provato a proporre Cicognani, benché Tiberti non avesse voluto farne cenno nel suo messaggio – che ci dia il permesso di richiamare gli uomini lasciati di stanza nelle terre già prese."

"Così facendo ce le riconquisterebbero una dopo l'altra e allora sì che sarebbe stato davvero tutto inutile!" rimbeccò Tiberti, dando già la lettera alla staffetta.

"A ogni assalto perdiamo uomini – controbatté Cicognani, che cominciava a farsi un po' insofferente nei confronti della prudenza dell'altro condottiero – ogni giorno d'attesa è un giorno in meno verso la sconfitta."

Al che Achille lo aveva mandato silenziosamente a quel paese, senza prendersi la briga di ricordargli la precarietà tanto dello Stato della loro signora, quanto dell'intera campagna militare in cui si erano buttati.

Era fondamentale non lasciarsi impensierire da qualche perdita. La Tigre lo aveva previsto, Tiberti se lo ricordava bene, e aveva strappato a tutti loro la promessa di non darsi per vinti troppo facilmente.

Aveva delle carte segrete ancora da giocare e se l'attacco del meldolesi era in effetti stato un colpo inatteso, la Contessa avrebbe di certo saputo fare un affondo ancor più spettacolare.

Bastava avere fede e attendere con fiducia. Tiberti si fidava di pochissime persone, sulla faccia della Terra e quelle poche erano sue consanguigne. L'unica che faceva eccezione era proprio la sua signora e, che diamine, Cicognani poteva farsi prendere da tutte la paure del mondo, ma Achille non avrebbe fatto altrettanto.

"I rinforzi arriveranno – disse con decisione, prima che Cicognani cambiasse strada, per andare a controllare un altro lato del campo – e con loro la vittoria."


 Guglielmo Altodesco, fresco ambasciatore forlivese a Rimini, stava aspettando di poter parlare con Pandolfo Malatesta.

La Tigre gli aveva scritto una breve missiva in cui gli ordinava di agire con prontezza, facendo pesare, e non poco, il legame che lei stessa era riuscita a stabilire con il Pandolfaccio, ma Altodesco si stava scontrando con la flemma ostentata del signore di Rimini, che era capace di far attendere i suoi interlocutori per intere mezze giornate.

Quella volta, però, il Malatesta fu abbastanza rapido, tanto che quando si presentò nella saletta d'aspetto dedicata ai dignitari stranieri, Guglielmo non aveva ancora ceduto alla tentazione di mettersi a sedere per riposare le gambe.

Pandolfo fece segno con una mano dalle lunghe e sottili dita all'ambasciatore di seguirlo e lo condusse fino nelle sue stanze private: "Qui nessuno ci ascolta, nemmeno quei cani randagi dei miei fratellastri." spiegò.

Altodesco osservò il lusso sfrenato del letto a baldacchino intarsiato e broccato d'oro, lo sfarzo delle tende che toccavano terra in uno svolazzo di tessuti pregiati, l'eccesso dei soprammobili e degli specchi che occhieggiavano dalla parete, ma non si lasciò scomporre.

Mantenne il suo sguardo neutro e l'espressione dura, mentre cominciava a reclamare, senza attendere un invito esplicito del Malatesta: "La mia signora è molto scontenta di quello che avete fatto, messere."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora