Capitolo 286: L'ambasciatore di Firenze

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  Giovanni Medici si passò la manica della camicia sulla fronte. Quel giorno faceva davvero molto caldo, per essere solo marzo, e il cielo nero che lo sovrastava altro non faceva che aggiungere afa all'afa. O forse era lui a essere ancora troppo debole e a soffrire più del dovuto l'umidità di quel giorno.

Il viaggio era stato tutto fuorché semplice. Lungo la strada il Popolano era stato convinto più volte dalla sua scorta a fare delle soste per colpa del maltempo. Non si trattava di grandi piogge o grandinate, ma solo di venti fortissimi e un numero incalcolabile di fulmini spesso non accompagnati nemmeno da una sola goccia.

Giovanni poteva dire in tutta coscienza di aver visto più alberi colpiti da una saetta lungo la strada che portava da Firenze a Forlì che in tutta la sua vita.

Così, quando finalmente la Porta Ravaldino, quella che si apriva sulla strada che giungeva dalla Toscana, il Popolano si permise di tirare un sospiro di sollievo.

Avrebbe voluto fermarsi un momento in città per rassettarsi e magari per farsi radere la barba, che era cresciuta anarchicamente per oltre tre giorni, ma desiderava sopra ogni altra cosa presentarsi alla Contessa Sforza Riario e rendere noto il suo arrivo. Suo fratello gli aveva spiegato chiaramente che quella era la primissima cosa da farsi, per non rischiare spiacevoli incidenti.

L'aria a Forlì era ancora troppo tesa, per quel che sapeva, per poter entrare in città impunemente senza dare spiegazioni a nessuno.

"Quella dev'essere la rocca dove vive la Tigre." disse uno dei soldati della scorta, indicando l'imponente costruzione che stava poco lontano dalla porta.

Giovanni osservò con attenzione l'alta parete di pietra e gli uomini di ronda che passeggiavano attenti sui camminamenti. Un paio di loro li avevano già visti e li stavano tenendo sotto tiro con gli archi.

Sì, decisamente Forlì era ancora immersa in un clima poco disteso.

La piccola carovana fiorentina giunse in prossimità della porta cittadina, sempre tenuta sotto tiro dai soldati della rocca.

Porta Ravaldino non era chiusa, ma a un paio di metri dal limen di Forlì stavano quattro guardie che incrociarono subito le alabarde, mentre una quinta, con un'armatura molto più pesante, chiedeva: "Chi siete? Che volete? Da dove venite?"

Giovanni smontò dal suo cavallo e, accompagnato dal rombare di un tuono, rovistò nella bisaccia assicurata al lato della sella. Trovò il documento che cercava e si avvicinò alla guardia che aveva parlato.

"Sono Giovanni dei Medici, di Firenze. La repubblica mi ha mandato come ambasciatore presso la Contessa Sforza Riario. Sono qui per incontrarla. La Contessa sa del mio arrivo e mi sta aspettando." spiegò il Popolano, porgendo il foglio al soldato.

Questi afferrò il pezzo di pergamena, scrutò a lungo i sigilli che l'appesantivano, dopodiché guardò di soppiatto il fiorentino e poi la sua scorta: "Quegli uomini non possono entrare così armati in città." disse.

Il Popolano si grattò il mento ispido e, mentre un altro lampo andava a schiantarsi poco lontano dalle mura di Forlì, fece spallucce e disse: "Entrerò io solo con il carretto e il carrettiere, se vi può garbare. Quelli che mi accompagnano avevano ordine di scortarmi solo fino a qui, non sarebbero rimasti con me comunque."

Quello che sembrava un caporione della guardia cittadina, restituì il documento a Giovanni e poi fece segno ai suoi quattro uomini di perquisire il nuovo ambasciatore fiorentino e il carrettiere, senza tralasciare, ovviamente, il contenuto del baule che stava sul carro.

Il Popolano subì pazientemente quella prassi, chiedendosi che incidente diplomatico sarebbe potuto sorgere se a essere perquisito fosse stato un ambasciatore meno alla buona di lui.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora