Capitolo 306: Chi non sa fingersi amico, non sa esser nemico

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Per il piccolo banchetto tenuto in onore di Simone Ridolfi, la Contessa aveva deciso di far cucinare il cinghiale cacciato assieme a Giovanni, accompagnandolo con alcuni dolci tipici di Milano.

Le portate sarebbero state poche, in modo da ridurre al minimo il tempo necessario per consumarle, ma si sarebbe comunque trattato di una cena degna di un ospite di riguardo quale era il nuovo messo fiorentino.

La donna aveva dispensato i figli più piccoli da quell'incombenza, mentre Ottaviano, Cesare e Bianca erano stati caldamente invitati a prestare la loro presenza e porgere formalmente gli omaggi al fiorentino.

Aveva dato loro l'ordine il giorno stesso della cena, pensando di non trovare alcun tipo di ostruzione. Invece tra i tre, quello che di norma era sempre stato il più remissivo, si permise di alzare la cresta e di opporsi, anche se solo a parole.

"Perché dobbiamo esserci anche noi? Lo Stato che voi comandate non ha quasi più nulla a che fare con noi." aveva chiesto Cesare, facendosi scuro in volto, senza guardare la madre.

Caterina ci aveva pensato un secondo, pensando agli eventuali problemi che costringere il figlio a presenziare avrebbe potuto comportare e poi, scegliendo una linea abbastanza morbida, gli aveva risposto: "Hai ragione. Questo Stato non ha quasi più nulla a che spartire, né con te, né con tuo fratello. Dunque, se non vuoi, non è necessario che ci sia anche tu. Ormai sei affare della Chiesa."

Tuttavia il ragazzo, che forse era in realtà in cerca di uno scontro più acceso e non delle parole quasi apatiche della madre, aveva stretto un pugno sul petto e aveva sentenziato: "No, ci sarò anche io. Non voglio sembrare un figlio irrispettoso."

Durante quel breve scambio di battute, Ottaviano, che era presente come Bianca, non aveva sollevato gli occhi dal pavimento nemmeno per sbaglio. Da quando era stato liberato non aveva osato contraddire la madre in nessun modo, neppure una volta, nemmeno con il linguaggio del corpo.

Sua sorella aveva provato ad aprire la bocca, forse per pacificare un po' Cesare e la madre, ma poi si era zittita all'istante, quando la Contessa aveva sospirato contrariata e aveva concluso: "Cercate di fare conversazione con il nostro ospite e con il suo seguito in modo affabile, ma non date loro troppa confidenza."

Oltre a Simone, infatti, quella sera erano attesi anche i suoi segretari.

Giovanni aveva cercato di far desistere il cugino, pregandolo di sfoggiare un po' meno la propria disponibilità economica, dato che la corte della Sforza era tutt'altro che sfarzosa, tanto che, addirittura, la Contessa non indossava mai gioielli. Si diceva che quella mancanza fosse dovuta al fatto che i monili della Tigre erano stati in parte venduti e in parte impegnati dal Conte Girolamo Riario, ma, per il Popolano, il fatto che la Leonessa si mostrasse con abiti modesti e senza fronzoli era solo un valore aggiunto, quale che fosse la ragione reale di quella scelta.

Malgrado tutte queste spiegazioni, però, Simone non aveva voluto sentire ragioni.

"Tu vuoi esserle amico – aveva detto, tralasciando una volta tanto il suo gusto per i doppi sensi e le prese in giro – ma noi rappresentiamo Firenze. Non dobbiamo compiacere la Tigre di Forlì, ma farle capire che siamo più forti di lei. Deve arrivare al punto di rendersi conto che o accetta la protezione della nostra repubblica alle nostre condizioni, o sarà la nostra repubblica a distruggerla."

Il Popolano non aveva preso bene quell'animosità, riconoscendo nel cugino la vecchia sete di fama e potere che già si era fatta sentire in lui quando era ragazzino, anche se poi le circostanze della vita non gli avevano mai dato modo di sfogarla.

Probabilmente Ridolfi sperava, portando a casa un ottimo risultato con la famigerata Leonessa di Romagna, di guadagnarsi un posto tra i grandi di Firenze.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora