Capitolo 440: Le ferite sanguinanti spurgano il male

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"Questa non è una perdita di tempo!" gridò Annibale Bentivoglio, togliendosi con rabbia l'elmo e tornando a respirare.

Stare fuori, con quel clima impossibile lo aveva sfiancato e tornare al campo e sentire dire certe assurdità gli aveva subito fatto perdere le staffe.

Tuttavia, malgrado il suo sguardo rabbioso, nè Bartolomeo d'Alviano – che era stato, a quanto pareva, l'artefice di quella mezza sollevazione – nè gli altri presenti si scomposero di una virgola.

"E va bene..." fece allora Annibale, scuotendo il capo e facendo qualche colpo di tosse: "Se volete ripiegare su Bibbiena, fate come volete. Li respingo volentieri da solo, questi dannati fiorentini."

Carlo Orsini allargò le braccia e spiegò: "Loro hanno le bombarde, e truppe fresche e Ranuccio da Marciano. Anche se abbiamo provato a mandare una spia per tirare dalla nostra il loro comandante, ci è andata male. Troveremo un altro modo per assicurarci la via degli Appennini. È inutile restare per prendere quella rocchetta..."

"Io resterò fino alla fine." si oppose Annibale, ostinato: "Ripeto e ribadisco, voi fate quel che vi pare. Sarà il Doge a decidere come punirvi."

"Parlando di punizioni..." fece Guidobaldo da Montefeltro: "Lo sapete che il vostro collaterale, Filippo Aureliano, ha mosso formale richiamo a vostro nome per i quaranta disertori che vi sono sfuggiti da sotto al naso..."

Bentivoglio deglutì. Le defezioni erano all'ordine del giorno, ormai, e da quando si era messo a piovere in quel modo, sempre più soldati avevano trovato, nottetempo, la strada per andarsene senza farsi notare. Solo che nel suo battaglione ne erano mancati ben quaranta e tutti nel corso della medesima sera. Sapeva che sarebbe stato un problema, alla fine...

"Come volete." concluse Annibale, osservando con odio Bartolomeo d'Alviano che, muto e impassibile come sempre, lo fissava di rimando: "Andate a Bibbiena, al diavolo, o dove diamine vi pare. Io resterò a combattere e basta. Ho una dignità da difendere."

"Disse il pastore che mentre dormiva aveva lasciato scappare quaranta pecore..." ridacchiò Guidobaldo, ma senza troppa acrimonia.

Bartolomeo d'Alviano, a quel punto, si mise nel centro del padiglione e guardò ancor più fisso Bentivoglio e disse solo: "Partiremo prima di sera."


"Adesso basta..." soffiò la Sforza, stringendo la mano a pugno e scuotendo il capo, oltraggiata dal resoconto pessimo che le era appena stato riferito: "Non volevo arrivare a tanto, ma a questo punto, procedete come deciso."

Luffo Numai annuì in silenzio e poi, dedicando appena uno sguardo a Bianca e Giovannino, che stavano alle spalle della Tigre, lasciò la sala delle letture.

La Contessa si era ritirata lì per trovare un po' di svago, per leggere qualcosa al suo figlio più piccolo, ma evidentemente non poteva restare tranquilla nemmeno un istante.

La figlia la guardò di sottecchi, ma non osò domandare nulla. Non aveva idea di quali fossero le misure ideate dalla madre, ma immaginava che dovesse essere qualche provvedimento che lei stessa non approvava.

La situazione si stava facendo seria e, con la questione di Marradi e Castiglione ancora in bilico e Achille Tiberti incapace di prendere in mano la situazione come Caterina avrebbe voluto, era chiaro che la Leonessa non potesse più attendere che il suo popolo capisse qualcosa di sua sponte.

"Bianca..." la voce della Contessa era un po' appannata, come se i troppi pensieri la stessero confondendo: "Ascolta... Potrebbe esserci un po' di confusione, domani. E nei prossimi giorni..."

La Riario osservò la madre, trovandola distratta e sconfitta, tuttavia le assicurò subito: "Non temete. Anzi, se volete chiederò anche ai miei fratelli di non lasciare la rocca..."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora