Capitolo 333: O luce candidiore nota!

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 Caterina respirava lentamente, standosene sotto le coperte, accoccolata contro Giovanni, che la stringeva a sé con un braccio.

Il calore della pelle del fiorentino, tersa da un velo di sudore che si confondeva con il suo, per la Contessa era una benedizione. Erano in silenzio da parecchi minuti, entrambi persi nei propri pensieri, intenti ad assaporare quel momento di completa tranquillità.

La Casina stava offrendo loro una parentesi di calma, in mezzo a un mondo in burrasca. Fuori si sentiva ancora il vento fischiare e dal camino arrivava ancora qualche crepitare indeciso del legno che ardeva, ma loro, sul quel pagliericcio che faceva da letto, si sentivano al sicuro ed estranei a ogni pericolo.

La Leonessa teneva premuto il viso contro il collo del fiorentino, restando un po' addosso al corpo snello di quell'uomo, esile, confrontato con il suo, e ogni battito del suo cuore faceva da eco a quello di Giovanni, come due tamburi che suonavano all'unisono.

La sensazione completa di pace con se stessa che avvertiva era qualcosa che le era stato estraneo per così tanto tempo che quasi non riusciva a riconoscerla. Forse, volendo essere spietatamente sincera, non era mai stata così bene nemmeno quando si chiudeva nel Paradiso assieme al suo Giacomo.

"Ancora non posso crederci..." sussurrò il Popolano, dopo ancora qualche minuto di perfetto silenzio, gli occhi persi nel fissare il soffitto di travi su cui il fuoco ormai morente del camino gettava le sue ombre incerte.

"A cosa?" chiese Caterina, stringendosi ancora di più a lui, assaporando l'odore della sua pelle e desiderando con tutta se stessa che quel momento potesse non finire mai.

"Al fatto che tu sia stata mia." rispose il fiorentino, chiudendo un momento le palpebre e mordendosi pian piano il labbro, come se stesse rievocando tutto quello che era successo poco prima: "Fosse anche solo per stanotte, sarei a posto per tutta la vita."

La Contessa sbuffò, quasi divertita da quella strampalata affermazione e, puntellandosi su un gomito, guardò il volto regolare e armonioso del Medici.

Gli accarezzò lentamente la fronte e poi gli diede un bacio leggero: "Sei tu che sei stato mio, non il contrario."

Per sedare qualsiasi recriminazione, la donna lo baciò di nuovo, con più insistenza, zittendolo.

Giovanni, che aveva passato gli ultimi minuti in una sorta di stupito torpore, sentì crescere dentro di sé di nuovo il desiderio che l'aveva guidato fino a quel momento.

Imponendosi sulla donna con fermezza, seppur con un movimento molto gentile, la fece stendere sulla schiena e le disse, baciandola sul collo, poi sulla clavicola e sempre più giù: "Se vuoi, posso esserlo ancora... Manca parecchio a domani e fino ad allora non possiamo certo tornare alla rocca, sfidando la tempesta di neve e le creature della notte..."

Caterina non trovò un motivo valido per negarsi e così sussurrò, con un sorriso che le si accendeva sulle labbra, mentre il fiorentino passava le sue bellissime mani sul suo corpo: "Hai ragione,dobbiamo sfruttare questi momenti, prima che il mondo ci travolga di nuovo..."

Giovanni annuì appena e poi, mettendosi con più decisione sopra di lei, iniziò a dire: "Si qui quid cupido optantique obtigit umquam insperanti, hoc est gratum animo proprie. Quare hoc est gratum nobisque..."

"Est carius auro, quod te restituis, Lesbia, mi cupido..." intercalò la Tigre, scoprendosi a conoscere a memoria quelle parole che tante volte aveva letto nelle lunghe notti passate insonni a inseguire i suoi fantasmi.

"Restituit cupido atque insperanti, ipsa refers te nobis. O luce candidiore nota..." proseguì l'uomo, mentre la sua voce si faceva appena un soffio e poi i baci zittirono entrambi e i versi di Catullo restarono ad aleggiare nella Casina mentre l'ambasciatore e la Contessa tornavano alla scoperta l'uno dell'altra.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora