Capitolo 337: Martedì Grasso

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Le navate di Santa Maria del Fiore erano così stipate e l'aria così viziata da odori umani – sudore, fiati pesanti e abiti incrostati di sangue secco dei flagellanti – e divini – incenso, fumo di candele e olii sacri – che la maggior parte dei presenti faceva perfino fatica a respirare.

Nell'atmosfera fumosa e satura della chiesa, Savonarola salì sul pulpito per la sua predica. Dal periodo dell'Avvento aveva sempre lasciato le Messe – anche quelle solenni – al suo confratello Domenico da Pescia, per non attirarsi altre inutili ire del Santo Padre, ma quella vigilia di Quaresima doveva essere sua.

L'altro domenicano aveva fatto un ottimo lavoro, nelle settimane addietro, infervorando il popolo e soffiando sulle ceneri che stavano ridando vigore al fuoco incontrollato dell'estremismo.

Con studiata calma, Savonarola si prese il suo tempo per cominciare a parlare, facendosi forte del silenzio che aveva reso le navate della chiesa spettrali come una grotta.

L'unico suono che si poteva udire era quello ritmico e metallico dei turiboli agitati avanti e indietro dai chierici e qualche sommesso pregare dei flagellanti che, non potendosi prendere a frustate per via della calca, continuavano la loro espiazione almeno a parole.

Quando il frate iniziò a tuonare, Girolamo Benivieni, in primissima fila, strinse a sé con più forza il crocifisso che ormai si portava appresso ovunque e poi si assicurò per la centesima volta di avere ancora in tasca il foglio di pergamena su cui s'era appuntato la sua Canzone, scritta appositamente su ordine di Savonarola.

L'avrebbero cantata i bambini quel pomeriggio, assiepati nella loggia accanto al palazzo della Signoria, quando si sarebbe raggiunto uno dei momenti cruciali di quel Carnevale.

La trama della sua composizione era semplice e fortemente satirica. La personificazione di Carnevale veniva cacciata con scherno da Firenze e scappava a Roma, dove la Curia, per ripagarla delle offese subite, puniva i toscani bandendo Quaresima dalla città. Al che, addolorato per la pena dei fedeli fiorentini che si vedevano negati uno dei periodi dell'anno più importanti per un credente, Carnevale decideva di tornare a Firenze e immolarsi sul fuoco, lasciandosi bruciare per fare sua erede Quaresima.

Ripensando a come Savonarola avesse insistito per fargli scrivere quella Canzone che inneggiava a dimenticare tutto ciò che era il Carnevale, cioè la festa, l'allegria, la bellezza e gli effimeri piaceri della vita umana, Benivieni si trovò a ripensare al suo caro Giovanni.

Tutti ricordavano la fulgida stella di Pico della Mirandola, a Firenze, ma solo a lui mancava davvero.

Mentre Savonarola gridava, aggrappandosi al pulpito e agitando in aria una mano dall'indice puntato in alto, in molti cominciarono a inneggiare a Dio o a chiedere perdono per i propri peccati gettandosi in ginocchio disperati.

Approfittando di quella confusione, anche Girolamo si accasciò a terra, cominciando a piangere in modo inconsolabile, ripensando a Giovanni Pico e alla sua giovane vita, spezzata senza un valido motivo, senza che lui potesse nemmeno manifestare apertamente il suo lutto, molto più profondo di quello dovuto alla perdita di un semplice amico.

Qualche panca più indietro, Sandro Botticelli restava immobile a fissare il domenicano che predicava e sentiva crescere dentro di sé una grandissima paura. Savonarola stava attaccando tutto quello in cui lui credeva e a cui aveva dedicato gran parte della sua vita.

Aveva sentito dire che quella sera ci sarebbe stato un grande falò e che molte opere d'arte vi sarebbe finite dentro.

Lui, che trovava nell'arte l'unica forma di verità, bellezza e amore, come avrebbe potuto sopportare una simile visione?

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora