Capitolo 371: Noli me tangere

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Giovanni sospirò, mentre si svegliava lentamente, voltandosi sul fianco. Allungò un braccio, per cercare la moglie, ma trovò solo il lenzuolo stropicciato.

Accigliandosi, si mise seduto e sbatté un paio di volte le palpebre. Il sole era già alto, ma non doveva essere molto tardi. Caterina non era in camera e a un secondo tocco il Medici si accorse che la sua parte del letto era fredda, quindi doveva essersene andata da un po'.

Buttò le gambe oltre il bordo del materasso e il pavimento di pietra freddo contro la pianta dei piedi lo fece rabbrividire.

Mosse con cautela le articolazioni dal ginocchio in giù e le trovò sempre più rigide. Anche se non aveva particolari dolori, quella difficoltà di movimento stava rendendo la sua claudicanza impossibile da mascherare.

Stancamente, chiedendosi come facesse a fare così caldo già a quell'ora, si tirò su e cominciò a vestirsi poco per volta, prendendosi i suoi tempi. Se si muoveva con cautela, gli sembrava di riuscire a gestire meglio la rigidità delle sue gambe.

Quando fu pronto, con addosso abiti leggeri, uscì dalla camera e andò a cercare Caterina. Lo fece con discrezione, ma quando, dopo aver vagato per tutta la rocca, fu stufo di camminare, preferì chiedere a qualcuno.

Anche se i suoi dolori non lo stavano tormentando in modo particolare, preferiva evitare lo sforzo inutile di andare in città, se per caso la Tigre era a Ravaldino e lui non l'aveva incrociata per puro caso.

"Avete visto mia moglie?" chiese, senza ragionare troppo sulla scelta delle parole, quando si imbatté nel castellano.

Cesare Feo restò un momento in silenzio, nel sentire il fiorentino riferirsi alla Contessa in quei termini, ma in fondo sapeva benissimo cosa li univa e quindi dopo quell'attimo di smarrimento, rispose: "Sì, sì, certo... È uscita a caccia questa mattina, poco prima dell'alba... Non ve l'ha detto?"

Il Popolano registrò la notizia e, notando in modo spiacevole l'occhiata che il castellano gli stava dedicando, rispose, fingendo di essersene ricordato solo in quel momento: "Ah, sì, sì, certo..."

Cesare Feo lo salutò con un cenno del capo e proseguì per la sua strada, mentre Giovanni si sedette su una delle panche del loggiato.

Caterina non era estranea a quelle decisioni repentine, e anche andare nei boschi da sola non era una cosa fuori dal comune, per lei.

Tuttavia, il Medici non poteva dimenticare che quel giorno ricorreva il secondo anniversario della morte di Giacomo Feo. E nemmeno che Caterina portava in grembo il loro bambino.

Se per caso avesse commesso qualche sciocchezza, a caccia, o anche solo qualche leggerezza, mettendosi a sfidare qualche bestia più feroce di lei...

Scuotendo il capo con forza, il Popolano si rimise in piedi e decise di sviare la mente lavorando a qualcosa. Benché non avesse alcuna intenzione di passare del tempo con il castellano che, con i suoi occhi scuri lo aveva tacitamente deriso, fissandolo come a dirgli che finalmente si rendeva conto di che significava essere il marito di una donna come la Sforza, andò nello studiolo e gli chiese di dargli qualche registro da controllare.


 Caterina accarezzava in silenzio il collo setoso del suo purosangue. Quel mattino, molto presto, si era spinta fino ai prati di Cassirano, vicino al confine con Faenza, ed era ancora lì.

Anche se davanti a sé vedeva il verde prepotente della natura e sentiva sul suo viso il sole cocente d'agosto, la Contessa non riusciva a fare altro che tuffarsi nei ricordi.

Come aveva fatto già troppe volte, stava ripercorrendo il giorno che le aveva strappato Giacomo e più ci ripensava, più non si dava pace.

Il suo amatissimo secondo marito le aveva sempre detto di non fidarsi di Ottaviano. L'aveva capito subito che era pericoloso e non solo un incomodo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora