Capitolo 423: Quam magnus numerus Lybissae harenae...

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Paolo Vitelli guardava, immobile sul suo cavallo da guerra, i suoi soldati che costruivano il più in fretta possibile i ponti sul fiume.

L'Arno quel giorno sembrava volerli favorire ed era molto più tranquillo del solito. Se la fortuna li avesse assistiti ancora un po', la sua manovra diversiva avrebbe avuto successo. Era partito con ottocento armigeri, settecento balestrieri e quasi settemila fanti, diretto lì, sulla strada per Buti. Nel frattempo, però, aveva mandato una squilla a Cascina, facendo credere che il suo attacco sarebbe arrivato lì e che, in uno slancio di umanità, proponeva alla città di arrendersi in modo pacifico. Nel caso remoto in cui Cascina si fosse davvero arresa, tanto meglio. Altrimenti, sarebbe bastato come diversivo per distrarre i pisani e i veneziani e permettergli di trovare il modo e il tempo di passare l'Arno.

Il vento caldo di quell'agosto lo stava facendo sudare parecchio, eppure l'uomo teneva la schiena dritta e il viso rivolto al sole, verso i lavori che continuavano febbrili.

Tuttavia, anche se i suoi occhi a mezz'asta parevano del tutto immersi nella contemplazione che ponte che stava sorgendo a pochi metri da lui, la mente del comandante era impantanata in una serie di strane considerazioni.

Da quando il Medici aveva lasciato il campo, qualche giorno addietro, la sua testa si era messa a lavorare ancor più freneticamente dei suoi uomini. Sarebbe stato chiaro a chiunque, nel vederlo, che il Popolano era in fin di vita.

Il Riario aveva fatto di tutto per farli partire prima di sera, ma alla fine avevano addirittura dovuto rimandare di mezza giornata perché il cerusico era sicuro che spostarlo in quel momento sarebbe equivalso a ucciderlo.

Giovanni aveva protestato, ma alla fine, svenuto, era stato zitto fino al giorno dopo e così, il 18 agosto, l'avevano caricato sul carretto più stabile che avevano ed erano partiti, invocando tutti i Santi esistenti affinché permettessero loro di arrivare tutti vivi a Forlì.

Al Vitelli interessava molto poco della vita di quel fiorentino, in realtà. La sua preoccupazione era tutta legata alla politica e alle bizze che sarebbero potuto scaturire dalla morte improvvisa di quel giovane uomo.

Sapeva che la Signoria, per lo meno de facto, era fortemente influenzata da Lorenzo Medici e tutti quanti sapevano quanto questi fosse legato al fratello. Perderlo avrebbe potuto fargli imboccare strade scelte dal dolore più che dal ragionamento.

E in più Giovanni era l'anello di congiunzione con la Romagna. La Tigre di Forlì era instabile e forse perdere il marito avrebbe influenzato anche lei in modo molto pesante e magari addirittura in senso negativo per Firenze.

Insomma, per quanto al Vitelli apparisse impossibile, un solo uomo - conteso tra la moglie e il fratello - avrebbe potuto con la sua morte sbalestrare la bilancia politica d'Italia.

"Mio signore..." il suo attendente lo affianco e chinò appena il capo: "Gli uomini dicono che il ponte sarà pronto prima di sera."

Paolo fece un respiro profondo e poi, annuendo appena, commentò: "Bene. Che si sazino a dovere, a lavoro finito. Ci attende un assedio molto impegnativo, a Buti."

"Sì, mio signore." rispose l'attendente, chiedendosi cosa, a parte l'ansia per l'imminente assedio, stesse rendendo tanto cupo il Vitelli.


Ottaviano tirò un sospiro di sollievo, quando vide finalmente all'orizzonte la cinta muraria di Forlì illuminata dal sole impietoso d'agosto. Anche se avesse dovuto affrontare l'ira della madre, almeno era arrivato a casa.

La traversata delle montagne era stata quanto di peggio potesse immaginare. Per riuscire a trasportare Giovanni avevano dovuto allungare parecchio la strada e a un certo punto si erano pure dovuti fermare, perché sembrava che il fiorentino non ce la facesse a continuare.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora