C364:E tutto 'l sangue mi sento turbato, ed ho men posa che l'acqua corrente...

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La chiesa di Santa Maria Novella di Bracciano era fresca, benché fuori il primo sole di luglio stesse già scaldando l'aria.

"Avete fatto un lavoro egregio." disse piano Bartolomeo, fissando il monumento sepolcrale che Gian Giordano Orsini aveva fatto costruire per il padre Virginio.

"C'è voluto del tempo, ma sono felice di averlo riportato qui." disse il quarantenne erede del defunto Orsini: "In questa chiesa riposano tutti i nostri avi. È giusto che sia qui anche lui."

D'Alviano annuì e congiunse le mani, in segno di una fugace preghiera. Ricordava bene il funerale di Virginio e il modo apparentemente troppo facile in cui aveva recuperato il suo corpo dai suoi carcerieri a Napoli.

Da quando suo cognato era stato ucciso, molte cose erano cambiate e per Bartolomeo era stato come trovarsi in un gorgo che lo spingeva sempre più giù, lasciandolo respirare solo a sprazzi.

"Sono stati giorni ruggenti, per la nostra famiglia, vero?" fece Gian Giordano, indicando la tomba del padre e poi quella del nonno: "Gli Orsini non saranno mai più grandi come lo sono stati ai loro tempi."

A quel punto, Bartolomeo, che a sentir parlare di quelle cose provava un costante brivido lungo il collo, si trovò a pensare a come lui stesso fosse sul punto di lasciare gli Orsini al loro destino. Era vero, quando c'era ancora Napoleone e dopo di lui Virginio, la famiglia aveva vissuto il proprio tempo d'oro. Anche se con alterne vicende, il loro cognome era stato sulla bocca di tutti e non c'era Stato italiano che in fondo non li temesse almeno un po'.

Il tempo, però, era passato, e con lui Napoleone e poi Virginio, e presto sarebbe stato anche il turno di Bartolomea e Bartolomeo sarebbe salito sul carrozzone dei Baglioni, lasciando quella che era stata la sua famiglia per anni.

La nuova generazione, i figli di Virginio soprattutto, e ciò che restava della vecchia – come il mezzo traditore Paolo – non erano all'altezza del loro compito. Era triste dirlo, ma era l'amara verità.

"Mia zia come sta?" chiese Gian Giordano, che da quando era tornato a Bracciano non aveva ancora avuto il permesso da parte di Bartolomea di incontrarla.

Bartolomeo alzò un po' una spalle e non disse nulla. L'Orsini, allora, fece un sospiro e puntò gli occhi – vispi, ma non quanto lo erano stati quelli di Virginio – sulla tomba del padre e si chiuse anche lui in una preghiera silenziosa.

"Cosa intendete fare con Savelli?" s'informò Gian Giordano, mentre lui e Bartolomeo uscivano dalla chiesa per tornare al castello.

"Voglio trattare una pace." fece quello, laconico: "Ma la distanza è un problema."

"Casteltodino è a meno di un giorno da qui. Potreste andare e tornare agevolmente..." provò a dire l'Orsini, adeguando il passo a quello svelto e rigido del marito di sua zia.

Anche se tra loro c'erano solo un paio d'anni di differenza, Gian Giordano aveva sempre visto l'altro come molto più vecchio di lui. Forse averlo come zio glielo aveva sempre fatto considerare come una sorta di figura paterna.

"Io non voglio lasciare Bracciano." rispose Bartolomeo, secco: "Voglio restare fino alla fine."

L'Orsini capì subito che intendesse, così, con un sorriso un po' triste, gli diede una pacca sulla spalla e, al primo bivio, si congedò dicendo: "Ho delle cose da fare... Ci vediamo dopo al castello."

Una pace, in quel momento, non aveva senso e Bartolomeo lo sapeva molto bene. Stava gettando all'aria una campagna militare che lo aveva visto protagonista quasi assoluto, ma non gliene importava. Non se lo sarebbe mai perdonato, se sua moglie fosse morta mentre era lontano.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora