Capitolo 390: La prova del fuoco

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Francesco Gonzaga gettava alla rinfusa le sue cose nel bagaglio leggero che avrebbe portato con sé.

Trevisan lo aveva rassicurato, dicendo che Landi non aveva fatto i loro nomi, nemmeno quando si era visto minacciato di morte e che ormai, visto che era stato impiccato dopo un processo sommario, non avrebbe più potuto tradirli.

Il Marchese di Mantova, però, non si sentiva sicuro a restare a Venezia e così aveva subito predisposto per una partenza immediata.

Avrebbe voluto più di ogni cosa tornarsene a casa, da sua moglie, ma temeva un'accoglienza troppo fredda. Dopo le notti insonni che aveva passato, non voleva affrontare Isabella. Non con quell'ennesimo fallimento a pesargli sulle spalle, almeno.

Così aveva deciso di fare prima una puntata a Ferrara, dal suocero. Non gli era mai piaciuto molto, Ercole Este, con la sua rigidità e la sua taccagneria, ma in quel momento non vedeva a chi altro rivolgersi sia per placare sua moglie, sia per cercare un modo di ritornare a galla.

I problemi economici a cui stava per andare incontro per colpa del mancato rinnovo con il Doge, presto lo avrebbero messo in ridicolo, oltre che in difficoltà.

Così aveva dato ordine che da Mantova partissero, nell'arco di un giorno, trecento famigli che gli facessero da seguito alla corte del suocero. Ercole non doveva capire quanto fosse in pericolo la sua stabilità economica.

Senza contare che i soldi ci sarebbero anche stati, se Isabella non li avesse monopolizzati per i suoi folli progetti di abbellimento e arricchimento culturale della corte...

Con un sospiro abbattuto, Francesco buttò anche l'ultimo camicione nel baule e poi lo chiuse con uno scatto. Si passò una mano sulla barba ispida, tenuta lunga da quando era stato a Brescia. Si era convinto che a quel modo, mascherando l'asimmetria del suo volto, le donne avrebbero fatto meno fatica a immaginarlo bello.

Mentre faceva questa valutazione, si trovò a pensare che sarebbe stato meglio rimettersi in ordine e sbarbarsi, una volta di ritorno a Mantova. Non doveva provocare Isabella in alcun modo, nemmeno con un'accortezza come quella. Sveglia com'era, avrebbe capito subito il motivo di un simile cambiamento.


 "Si tratta di una condotta da poco – stava spiegando Ottaviano Manfredi, passandosi una mano tra i lunghi capelli biondi – ma venticinque lance, per ricominciare, non sono male."

Lorenzo Medici lo guardò di sotto in su. Non gli piaceva la sua pronuncia. Gli ricordava troppo la Romagna. Anche se nel tempo passato in Toscana, l'esule faentino aveva perso un po' di accento, il suo modo di esprimersi riportava alla mente del Popolano la sorte di suo fratello e la donna che Giovanni aveva malauguratamente sposato.

"Mi fa piacere che la Repubblica possa contare su un soldato come voi. Ma adesso, perdonatemi, ho da fare..." cercò di svicolare il fiorentino, passando accanto al Manfredi.

Ottaviano, reagendo d'impulso come faceva sempre, lo agguantò per la manica, inducendolo tanto a fermarsi, quanto a guardarlo sconcertato.

Erano nell'ingresso del palazzo della Signoria, un luogo ben diverso dalle osterie in cui il Manfredi spendeva le notti, eppure quel giovane arrogante pareva non cogliere la differenza.

"Mi ricordo." disse Ottaviano, guardandolo dritto negli occhi.

Lorenzo non capì, così aggrottò la fronte e incurvò le labbra, interrogativo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora