Capitolo 394: Doppia caccia

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L'aria della notte entrava prepotente dalle narici della Tigre mentre, le redini salde in mano, si addentrava nel bosco. Il vento si era placato un po', ma qualche soffio irriverente le alzava i capelli sciolti, facendoli sembrare guizzi di fuoco bianco in mezzo all'oscurità.

Gli animali che si nascondevano nel buio e nella vegetazione facevano pochi rumori, ma la Contessa riusciva a distinguerli, completamente concentrata su quello che la circondava. Quella solitudine, così completa e assorta, le stava permettendo di svuotare un po' la sua mente affollata da pensieri di ogni tipo.

Doveva mancare ancora un po' all'alba, ma la luce era già cambiata e sembrava che, oltre la luna, ci fosse qualcos'altro a mostrare la via al purosangue della Sforza.

La donna non aveva dato troppa importanza alla strada che stava seguendo. Tutto quello che le importava in quel momento era trovare un momento di stacco dal presente. Quando, però, arrivò a un piccolo spiazzo, si rese conto che la Casina non era lontana e tanto le bastò per reimmergerla in una serie di circuiti mentali che la indussero a fermarsi.

Sentiva il cuore pesante e avvertiva la solita stanchezza tornare a visitarla. Il ricostituente che aveva bevuto prima di partire, evidentemente, non aveva avuto grandi effetti sul suo corpo stremato.

Lego il cavallo al ramo basso di un albero e poi cominciò a camminare, le mani dietro la schiena, percorrendo il perimetro del piccolo spiazzo con il capo basso e un'espressione corrucciata.

Non era abituata a fare i conti con i limiti del proprio fisico. In circa trentacinque anni di vita, la sua prontezza di ripresa era stata una delle sue più grandi forze. La nascita di Ludovico, e anche gli ultimi tempi della gravidanza, l'avevano invece messa davanti all'evidenza più destabilizzante di tutte: stava invecchiando.

Ragionare sugli anni passati, più del doppio dei quali ormai passati lontani dalla sua terra natia, la fecero sprofondare in un vortice di emozioni contrastanti. Come le era già capitato alcune volte in passato, la Caterina del passato e quella del presente si confrontavano, criticandosi a vicenda, senza trovare un reale accordo.

Stanca di camminare, tornando verso il cavallo, la Sforza si sedette in terra, sull'erba umida e fredda, e appoggiò la schiena al tronco dell'albero. Chiuse un momento gli occhi, annusando l'aria che, forse, cominciava a sapere di primavera.

Le tornò in mente Giacomo, come sempre. Il chiodo fisso che nulla e nessuno sembravano capaci di strappare dal suo cuore era tornato anche quella notte a farle visita.

C'erano giorni in cui si odiava per la sua incapacità di dimenticarlo, altri in cui si odiava per aver anche solo pensato di poterlo dimenticare.

Asciugandosi una lacrima con il polsino della manica, la Tigre si mise a scrutare tra gli alberi, dapprima senza badarvi troppo, ma poi, notando un lieve movimento tra il sottobosco, con più attenzione.

Quando fu certa di aver visto bene, si alzò di scatto e prese subito la lancia assicurata alla sella del suo purosangue.

Attese un momento, quasi sperando che la bestia che aveva intravisto tra il fogliame se ne andasse.

Malgrado tutto, non si sentiva pronta ad affrontare un animale selvatico. Anche se era uscita bardata da caccia, l'unica cosa che cercava quella notte era la pace.

Il legno robusto dell'asta tra le mani, la Leonessa mosse un paio di passi in avanti. Le sembrava assurdo, ma anche in quel momento di tensione, la sensazione più forte era il dolore alle braccia nel tenere sollevata quell'arma così pesante.

Dopo qualche minuto in cui perfino il suo cavallo restò in perfetto silenzio, la Sforza si convinse che il pericolo fosse passato. Probabilmente la bestia aveva deciso di non sfidarla, per paura o perché non la riteneva una minaccia.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora