Capitolo 300:Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria

366 31 156
                                    

Il cancelliere Cardella chiuse il discorso con una scrollata di spalle e solo quando vide lo sguardo concentrato del fiorentino ebbe il dubbio di aver parlato a sproposito.

Colpa il caldo, colpa la stanchezza dovuta alla malattia appena passata, colpa l'aspetto rassicurante dell'ambasciatore, Cardella aveva risposto alle sue domande senza chiedersi se fosse o meno lecito farlo.

"Sia chiaro – aggiunse l'uomo, asciugandosi la fronte con il dorso della mano – questi sono affari della Contessa e non..."

"Certo, certo..." si affrettò a dire Giovanni, che infatti non aveva alcuna intenzione di far riferimento a quel fatto nella sua lettera, già pronta per essere inviata a Lorenzo: "Anzi, perdonate la mia curiosità, è che quando ho sentito dei problemi con i contadini, ho subito pensato a quando accadde una cosa simile nelle campagna di Firenze..."

Il cancelliere fece allora un sorrisetto di circostanza e poi di scusò con il Medici e andò per la sua strada.

Il fiorentino aveva voluto sapere tutto il possibile sulla questione dei Cavalcanti che pareva angustiare così tanto la Tigre. E Cardella, con una facilità sorprendente, aveva vuotato il sacco, spiegando come i riscossori dei tributi si fossero nel tempo macchiati di molti crimini, diventando autori di inutili soprusi e prevaricazioni.

Gli aveva anche detto che in prima istanza la Contessa aveva pensato di sostituire i Cavalcanti, ma ovviamente il problema si sarebbe riproposto, perché dopo poco ogni uomo sembrava trasformarsi in un rapace, quando veniva investito di quella carica.

Meditando su quello che si sarebbe potuto fare per risolvere la questione, il Popolano percorse quasi per intero il perimetro interno della rocca. Quell'andatura lenta e costante sembrava un toccasana per le sue povere articolazioni e gli conciliava i ragionamenti.

Fuori il vento continuava a soffiare con forza, mentre la sera si tingeva di scuro. Quando fu stanco di camminare, Giovanni rientrò nella sua camera e vi si chiuse dentro, convinto che una soluzione esistesse e fosse lì a portata di mano.


 Caterina teneva gli occhi puntati sulla fiala con dentro la sua pozione a far dormire.

Aveva fatto rassettare la sua stanza e aveva fatto cambiare l'aria. Eppure non riusciva né a prendere sonno né a distrarsi con la lettura.

La tentazione di prendere o fare qualcosa che la stordisse, come faceva ormai praticamente ogni notte da quasi un anno, era fortissima, ma non voleva più arrendervisi.

Che senso avrebbe avuto? Giacomo era morto e così sua sorella Bianca con la sua bambina, sua madre Lucrezia e suo figlio Livio.

Aveva davvero senso provare a non pensarci?

Respirando lentamente, Caterina si stese nel mezzo del letto, gli occhi chiusi e le mani intrecciate sull'addome.

Non voleva bere altro vino. Non voleva né annusare né sorbire la sua pozione. Non voleva nemmeno la compagnia di un uomo.

Anche se il suo corpo stava reclamando con forza tutte e tre le cose, la sua mente riusciva a tenere a bada i sensi, anche se a un prezzo molto alto.

La finestra era socchiusa e vi entrava un pungente sentore d'estate. Era sempre meglio del tanfo della pestilenza e dei cadaveri che aleggiava pressoché in tutti gli altri ambienti di Ravaldino.

A un certo punto, mentre la Tigre era ancora intenta ad ammonirsi da sola per i propri aneliti, un improvviso odore di pioggia le fece spalancare gli occhi.

Saltando giù dal letto come una molla, Caterina raggiunse la finestra appena in tempo per vedere il primo lampo dividere in due il cielo nero e sentire il primo rombante tuono. Nel giro di mezzo minuto, Forlì fu sferzata da una pioggia battente e violenta.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora