Capitolo 301: Qui gladio ferit, gladio perit.

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Francesco Gonzaga incrociò le braccia sul petto e, stringendo gli occhi contro il vento ancora spruzzato di pioggia che lo tormentava da un paio di giorni, guardo di nuovo verso Atella.

Il patto stretto con suo cognato Gilberto di Montpensier non gli piaceva. Vedeva bene quanto le truppe che guidava si stessero facendo insofferenti. Quando avessero scoperto che era stata accordata una tregua tanto lunga sarebbe stato difficile contenerli.

Dopo aver sconfitto in campo aperto con cinquecento stradiotti una misera colonna guidata da Paolo Orsini e Paolo Vitelli, i soldati del Gonzaga si erano insuperbiti e si dicevano pronti a radere al suolo Atella senza lasciare nemmeno un sopravvissuto.

Se non fosse stato per Francesco, nessuno avrebbe accettato l'accordo proposto da Gilberto.

Il Marchese di Mantova sapeva molto bene che quei trenta giorni erano stati chiesti solo per permettere l'arrivo dell'aiuto francese. Ma sapeva altrettanto bene che l'aiuto non sarebbe arrivato.

Quindi, il risultato finale non sarebbe cambiato. Bastava avere pazienza. Solo che aspettare trenta giorni...

"Mio signore – fece l'attendente, arrivandogli alle spalle – c'è un messaggio per voi."

"Da parte del Duca di Sessa?" chiese Francesco, trovando scontato che si trattasse dell'ennesimo tentativo di mediazione messo in atto da Gilberto, magari per allungare la tregua da trenta a quaranta giorni.

"Dal signore di Bracciano, Virginio Orsini." lo corresse l'attendente.

Gonzaga voltò il mento sporgente verso il suo sottoposto e si fece consegnare subito il pezzo di pergamena che teneva in mano.

Lesse in fretta quello che l'Orsini aveva scritto e poi chiese: "Hanno mandato un messaggero affinché attenda la risposta?"

"No, era un verrettone." rispose l'altro.

Francesco sospirò e guardò da sopra la propria spalla le mura di Atella. Chiese all'altro di seguirlo e andò fino al suo padiglione. Prese carta e inchiostro e scrisse una risposta. Poi la piegò con cura, arrotolandola fino a farne un cilindro sottilissimo e lo consegnò all'attendente.

"Devo parlare con gli altri comandanti – spiegò – ma appena mi vedi fare un cenno, fai partire questo messaggio."

Il giovane annuì e prese il cilindro portogli dal Marchese. Lo sistemò con cura dentro il giubbetto e poi seguì il suo signore fino alla tenda in cui si stava discutendo la campagna.


 L'epidemia a Forlì, dopo solo un paio di giorni di forti piogge, sembrava già andare spegnendosi.

Era bastato molto poco per permettere alle morti di diminuire e la Contessa convenne con il medico di corte nel pensare che uno dei fattori preponderanti nell'esito infausto della malattia fosse stata per parecchi, soprattutto per i più deboli, proprio il caldo asfissiante.

Appena era stato possibile, Caterina aveva ordinato di riaprire le porte della città. Era fondamentale far ripartire il commercio il prima possibile.

Gli ultimi malati erano stati isolati in un'unica zona, nella speranza di arginare una volta per tutte il contagio, e i corpi di chi non ce l'aveva fatta erano stati smaltiti, dopo i funerali a tappeto in cui erano stati impegnati pressoché tutti i preti della città, 'a norma di legge', come Luffo Numai aveva reso noto quella mattina.

La Tigre aveva ascoltato con apparente distacco quella notizia, tenendo solo per sé un silenzioso gemito nel pensare a come anche Livio avesse dovuto seguire il destino degli altri, e poi era andata a presiedere il primo Consiglio dopo quelli che le parevano secoli.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora