Capitolo 318: Suam cuique fortunam in manu esset

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"Mio figlio non ha mai fatto nulla senza il mio permesso." disse Elisabetta Aldovrandini, gli occhi spenti e il naso lungo puntati verso il Doge: "E non inizierà certo ora a fare diversamente. Se io gli dirò di seguire i patti, lui li seguirà. Pandolfo non muove un passo, senza che sia io a guidarlo."

Agostino Barbarigo ormai aveva già deciso di firmare l'alleanza che quella strana donna era venuta a proporgli, ma, chissà perché, lo intrigava sentirla parlare.

Rimini era un avamposto importante per Venezia e i termini dell'accordo erano favorevoli tanto alla Serenissima, quanto al Doge in persona.

L'unica remora, per il momento, che aveva fatto tentennare per tutti quei giorni Barbarigo, era stata la fama di Pandolfo Malatesta, tanto disprezzato dai suoi stessi sudditi da essere chiamato da tutti Pandolfaccio.

"Vostro figlio è il signore di Rimini, però, non voi." disse l'uomo, infastidito dal grattare della punta della penna del suo segretario sulla pergamena.

Detestava quella mania che colui aveva di segnarsi tutto, ma doveva ammettere che a volte tornava molto utile. Soprattutto con gente astuta come quella Elisabetta Aldovrandini che ora si trovava davanti.

La madre del Pandolfaccio non era più giovane, eppure conservava un fisico asciutto e un volto quasi privo di rughe. La sua espressione era ciò che di più strano il Doge avesse mai visto in vita sua.Sembrava uscita da un racconto che parlava di malefici e fantasmi.

Per un breve istante, fu portato a chiedersi se la storia che la voleva come mandante dell'omicidio di Raimondo Malatesta fosse vera.

Se la fosse stata, allora quella donna, con le sue labbra piccole e strette e il suo passo da uccellino in gabbia, sarebbe stata capace di far travestire il figlio appena diciassettenne da mendicante, e di fargli raggiungere con quell'inganno Raimondo e poi farglielo pugnalare a morte.

Con un brivido lungo la schiena, il Doge si passò una mano inanellata sulla barba candida, mentre Elisabetta, senza batter ciglio, rispondeva: "Finché sarò viva io, mio figlio farà solo quello che voglio io e per voi non sarà un problema."

"Voi non siete eterna." ribatté Barbarigo, sempre più sconcertato dal tono indifferente con cui la madre di Pandolfo stava portando avanti le trattative.

"Non lo sono – confermò l'Aldovrandini – ma non sono nemmeno vecchia, né malata. Penso io a tenere a freno mio figlio. Firmate."

Scuotendo piano il capo e pensando che quella sarebbe comunque statala naturale fine della loro diatriba, il Doge afferrò la boccetta d'inchiostro e si apprestò a mettere il suo nome in calce a quel documento pieno di correzioni e strafalcioni.

"Vorrei comunque ricordarvi – disse Barbarigo, senza trattenersi, mentre firmava – che vostro figlio ha formalmente danneggiato la nostra fazione, andando contro i nostri nel cesenate, non molto tempo fa. I nostri richiami sono caduti nel vuoto, almeno finché voi non siete giunta qui."

"Il passato è passato." disse Elisabetta, quasi annoiata.

"Ma il presente è presente!" esclamò il Doge, scomponendosi per la prima volta: "Vostro figlio si è anche impicciato nella guerricciola tra i Martinelli e i Tiberti e questo non lo doveva fare! O almeno doveva parteggiare per il faentino e non per i Martinelli, che sono nostri nemici!"

L'Aldovrandini fece un lento respiro e poi concesse: "Gli è stato chiesto un aiuto e lui l'ha fornito, sotto buon compenso. Anche se la guerra è in territorio di competenza dei Manfredi, non potete dire che voi ne siate stato danneggiato."

Il Doge si morse il labbro. Quello che gli stava dicendo era vero. Il suo impegno di correre in aiuto di Faenza, se lo scontro si fosse fatto troppo imponente, era solo un mucchio di belle parole. Per ora nemmeno un arciere era partito da Venezia alla volta della Romagna.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora