Capitolo 343: De fumo ad flammam

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Il Moro aveva ripetuto a Leonardo di finire in fretta l'affresco che ritraeva Gesù e i suoi apostoli attorno al tavolo dell'ultima cena, ma il domine magister continuava a rimandare.

L'artista si dimostrava sempre più recalcitrante a ogni ordine del suo signore, tanto che anche sotto aperta minaccia di essere mandato via, spesso tutto quello che faceva era sollevare le spalle e bofonchiare a mezza bocca qualche parola storta.

La verità era che Leonardo ricordava anche troppo bene di quanto la Duchessa Beatrice fosse affezionata a quel dipinto che immortalava l'ultimo pasto del Signore, benché lei l'avesse sempre e solo visto incompleto e impreciso, e quasi sempre di nascosto, dato che l'uomo detestava mostrare le sue opere incompiute a chicchessia.

Per Leonardo, lavorare a quel cenacolo era ancora troppo difficile.

Per di più, l'affresco era stato già in partenza pensato per la chiesa di Santa Maria delle Grazie, la stessa chiesa dove ora riposavano le spoglie mortali dell'Este e tanto bastava all'artista per sentire il cuore stringersi nel petto ogni volta che prendeva in mano il pennello.

Anche se in molti l'avevano vista come una donna dispotica e inflessibile, per Leonardo la Duchessa era stata una presenza importante, alla corte di Milano e senza di lei, forse, il Moro non gli avrebbe mai accordato tanta fiducia e tanta libertà.

Beatrice aveva rappresentato una ventata di novità per la muffa corte milanese. Dopo gli anni di limbo in cui Galeazzo Maria Sforza prima e Bona di Savoia poi avevano relegato gli intellettuali del Ducato, l'Este era stata capace di ridare vita a ciò che sembrava in punto di morte.

L'operato della Duchessa, pensava Leonardo, forse non era stato appieno capito dai suoi sudditi e dalla sua corte, ma sarebbe arrivato un giorno in cui i posteri l'avrebbero ringraziata, passando davanti alle meravigliose migliorie artistiche da lei volute per ridar lustro a Milano.

E così, pensare di mettersi a lavorare a qualcosa che, in fondo, sarebbe rimasto a memoria di Beatrice, nella chiesa in cui era sepolta per di più, gli metteva addosso una tristezza tale da paralizzarlo.

Quel giorno, poi, il domine magister aveva una grande scusa dalla sua parte: Lucrezia Crivelli, l'amante ufficiale del Duca, stava partorendo, e lui, come moltissimi altri cortigiani, si stava corrodendo nell'attesa di avere notizie.

Il palazzo di Porta Giovia era in fermento e nessuno riusciva a far altro che camminare da una parte all'altra, aspettando di sapere cosa stava accadendo nelle stanze della Crivelli.

Si diceva che Ludovico Sforza si fosse chiuso nei suoi appartamenti privati, in preghiera, terrorizzato all'idea che anche la sua amata Lucrezia potesse morire proprio come sua moglie Beatrice.

Leonardo, invece, era quasi sicuro che il Duca fosse con lei. Conosceva a sufficienza il carattere impulsivo del Moro per immaginarselo al capezzale dell'amante, intento a tenerle la mano, occhieggiando con inquietudine e speranza verso le levatrici che, troppo in soggezione per dirgli di uscire, gli riferivano i progressi della partoriente a ogni spinta.

La Crivelli non era più giovane. Aveva quasi quarantacinque anni e anche se il suo fisico ricordava ancora quello di una ragazza, era chiaro che i rischi che correva nel dare alla luce un bambino erano alti. Che il Duca fosse in ansia era più che normale.

Il domine magister si era infilato sotto i portici del cortile e, raggomitolato in uno scialle di lana pesante, stava affrontando la nebbia fitta che quasi gli impediva di vedere oltre il suo naso, facendo la punta a qualche penna ormai rovinata, tanto per tenere impegnate le mani.

Muoveva il taglierino con gesti rapidi e precisi, ma le sue orecchie erano allerta. Al primo urlo della prima serva, avrebbe capito se il nato era vivo o morto e forse anche se era maschio o femmina.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora