Capitolo 278: Rivalitatem non amat victoria.

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Il castello di Sigune stava bruciando davanti alle truppe forlivesi, che l'avevano appena espugnato e saccheggiato, prendendo tutto l'oro e tutte le ricchezze che il Conte Carlo di Sogliano vi aveva nascosto.

Gli uomini della Sforza avevano risparmiato quasi per intero i sudditi del suddetto Conte, uccidendone solo alcuni che si erano opposti all'invasione alla stregua di veri e propri soldati, ma per le sue proprietà non avevano avuto alcuna pietà, distruggendole o rubandole, a seconda dei casi, come la Tigre aveva ordinato loro.

Cicognani, i cui occhi pizzicavano per via del fumo che si alzava dalle strutture di legno che avevano sostenuto fino a poco prima gran parte della fortezza, appoggiò una mano guantata di ferro alla spalla di Achille Tiberti e si complimentò con lui per come fosse riuscito a prendere in un paio d'ore la città.

"Niente di che." rispose l'altro, il cui viso ancora portava i segni dello scontro, sotto forma di schizzi di sangue ormai secco e di polvere: "Erano agguerriti, ma erano pochi e male armati. Quel fanfarone del Conte di Sogliano non si aspettava di essere attaccato. Non qui, per lo meno e non adesso."

Cicognani sorrise: "Comunque sia, ci abbiamo guadagnato un bel po' di soldi. Non li ho ancora contati, ma a giudicare da tutti i sacchi che abbiamo riempito di monete, si tratta davvero di una somma più che discreta, ci si può giurare. Non dico che basteranno per finanziare l'intera guerra, ma poco ci manca."

Tiberti annuì compiaciuto, ma, mentre voltava il capo per guardare il suo commilitone, gli occhi gli caddero qualche metro più indietro, attirati da delle grida: "Che state facendo?" fece subito, scostando Cicognani e dirigendosi verso la fonte del fracasso.

Alcuni dei soldati arrivati coi generali faentini stavano trascinando per i capelli delle donne, delle popolane, a giudicare da come erano vestite. Altri, poi, stavano uscendo dalle case, ormai coperte dal fumo che arrivava dal castello, e anche loro avevano preso prigioniere delle giovani, quasi tutte o in lacrime o urlanti.

"Avete dei problemi?" chiese Vincenzo Naldi, comparendo a lato di Tiberti, gli occhi distaccati che lo indagavano con un certo divertimento: "Da che mondo è mondo le belle giovani di una città presa a sacco fanno parte in modo legittimo del bottino che spetta ai soldati per ripagarli del loro sforzo. O mi sbaglio?"

"La nostra signora ci ha espressamente vietato di prendere delle donne come prigioniere." ribatté Achille, indicando gli uomini di Naldi con l'indice accusatore: "State andando contro gli ordini della Contessa Sforza Riario, lo sapete?"

"Noi non siamo sotto al comando della Contessa Sforza." fece notare Naldi, dando segno ai suoi di continuare con il loro particolare saccheggio.

"Siamo più numerosi di voi – lo minacciò a quel punto Tiberti, abbandonando una volta per tutte le maniere distese che aveva cercato di mantenere con i faentini in riguardo alle alleanza decise dalla sua signora – se non volete che scoppi uno scontro intestino tra noi e che i miei uomini vi spazzino via, ordinate ai vostri di lasciare in pace le donne di questa città. Se i soldati hanno bisogno di sfogarsi, potranno farlo con quelle che abbiamo al nostro seguito, come mi risulta abbiano già fatto al loro arrivo, senza bisogno di usare violenza a qualcuno che non c'entra niente."

"Come siete morigerato..." sbuffò Naldi, che però aveva afferrato l'effettiva pericolosità che sottostava al discorso di Tiberti e aveva capito che alle parole sarebbero realmente seguiti i fatti, se non avesse collaborato.

Così, sbuffando, Vincenzo gridò un paio di ordini perentori ai faentini e questi, dopo qualche protesta e parecchie ingiurie e bestemmie, lasciarono andare le prigioniere, che si dileguarono veloci come lepri, imbucandosi nelle case e nelle viuzze secondarie in cerca di salvezza.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora