Capitolo 313: Tollere nodosam nescit medicina podagram

460 34 211
                                    

Caterina si svegliò con la testa pesante e la bocca amara. Nella luce del mattino che entrava pallida e smunta dalla finestra, vide la caraffa di vino vuota che giaceva accanto al letto e comprese quale fosse una delle cause del suo stato.

Si mise seduta sul materasso, avviluppandosi nelle coperte per far fronte al freddo. Si guardò attorno e la visione della stanza in cui si trovava le diede improvvisamente il voltastomaco.

Non le piaceva quello che aveva fatto quella notte e nel corso di molte notti passate. Se si fermava a ragionarci, non poteva che sentirsene disgustata. Quando arrivava il sole del mattino, tutte le illusioni che aveva rincorso tra le braccia di uomini che conosceva a malapena sparivano e restava solo un profondo senso di nausea e straniamento.

Passandosi lentamente una mano sul collo, la Contessa si alzò e si preparò in fretta per uscire.

Essendoci stato solo la sera prima il banchetto per le nozze di Simone Ridolfi e Lucrezia Feo, era probabile che alla rocca ci fosse più di una testa pesante e di certo poca voglia di essere produttivi, e dunque la donna ne avrebbe approfittato, prendendosi una mattina libera.

Dopo aver infilato un mantello imbottito di pelo, la Tigre uscì dalla camera. Passò davanti alla vicina porta di Giovanni Medici. Fu tentata di bussare, per chiedere come stesse, ma poi lasciò perdere.

Nel giro di un'ora scarsa, era già nel mezzo dei boschi a correre dietro a qualche preda, di piccola taglia, in modo da non dover poi faticare nel trasporto delle carcasse.

Mentre si appostava, nel silenzio cristallizzato di ottobre, Caterina allentò le briglia con cui teneva a freno la sua mente. Così cominciò a pensare a suoi figli e, più vi pensava, più si agitava.

Quando poi, proprio nel momento in cui un coniglio ritardatario aveva ben pensato di passarle davanti, la Contessa si trovò nell'assurda situazione di mancare il bersaglio per colpa di un pensiero improvviso.

Stava elencando tra sé i piani per il futuro dei suoi sette figli e, all'improvviso, si era resa conto di non averne più sette, ma solo sei.

Le era già successo qualche giorno addietro. Era soprappensiero e aveva contato Livio assieme agli altri. Solo dopo un minuto abbondante si era ricordata che Livio non c'era più.

Erano meccanismi infidi e la sua anima sembrava volerli sfruttare tutti, al solo fine di soffrire di meno. Il problema era che, appena la consapevolezza tornava, il dolore si amplificava.

Con gli occhi verdi puntati verso la coda a batuffolo del coniglio, che era ormai già lontano, la Tigre si rimise l'arco a tracolla e decise di tornare alla rocca. Non era più dell'umore giusto per cacciare prede tanto piccole e sfuggenti.


 Il quarantaquattrenne Federico d'Aragona si passò con affettazione una mano, rigidamente aperta e inanellata, sui capelli chiari, come ad assicurarsi che i ricci ampi e un po' sfatti fossero ancora al loro posto.

"Non mi piace per niente." disse, scuotendo con forza il capo e guardando la sorella, Giovanna d'Aragona: "Questo figlio del papa, questo Juan..."

La donna, che lo aveva appena ragguagliato sulle ultime notizie, che volevano il figlio prediletto del papa, alla testa di un gran numero di uomini, già in marcia verso Bracciano e già vittorioso in almeno un paio di assedi, gli appoggiò una mano sulla spalla: "Dobbiamo fare qualcosa. Dicono di agire in nostra difesa, ma più terreno guadagnano, meno ce ne renderanno a guerra finita. Anche se adesso tu sei re..."

Federico fece una smorfia: "Sono re, ma in pratica non ho un regno." l'anticipò.

Giovanna strinse le labbra e lanciò un'occhiata infastidita alla serva che aveva appena portato loro qualcosina da mangiare mentre discutevano.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora