La notte aveva lasciato il posto a una mattina dalla luce livida e incerta. L'aria, fino al giorno prima torrida come in piena estate, aveva una tonalità più autunnale e spirava una leggera brezza fresca che, però, Caterina non riusciva a sentire.
Aveva cavalcato nel buio profondo e adesso che il sola iniziava a illuminare la sua via, le dava quasi fastidio.
Non era ancora riuscita a ragionare in modo lucido su quello che era successo e in un certo senso non voleva farlo.
Stava conducendo il cavallo a velocità media, per non stancarlo. Non aveva alcuna voglia di fermarsi a una locanda per cambiarlo. Non avrebbe sopportato di interagire con qualcuno, in quel momento.
Voleva solo starsene chiusa nella propria mente, difendendola, per quanto poteva, da quello che le era appena piombato addosso.
Tuttavia, mentre attraversava la strada principale, imbattendosi in qualcuno di quando in quando, non riuscì più a mettere a tacere la propria coscienza e bastò uno sguardo veloce e casuale al nodo nuziale che portava al dito per riportarla con i piedi per terra.
All'improvviso, si sentì mancare il fiato nei polmoni e una nausea abbastanza forte da farle temere di dare di stomaco le strinse le viscere come in un pugno. Vide che non era troppo lontana dal limitare di un bosco e così, sotto gli occhi un po' stupiti di un postiglione che conduceva una carro mercantile, lasciò la strada per avvicinarsi alle piante.
Cavalcò per qualche centinaio di metri, senza nemmeno preoccuparsi di cercare di non perdersi e poi scese da cavallo, senza premurarsi di legarlo in qualche modo a un albero, tanto presa da se stessa da non trovare nemmeno la prontezza di sperare che la bestia non si allontanasse.
Stringendosi una mano sul ventre, laddove gli spasmi colici si erano fatti più forti, Caterina si inginocchiò in terra e venne scossa da un conato di vomito.
Sotto lo sguardo silenzioso e distante del cavallo – che non pareva intenzionato a scappare – la donna restò così per qualche minuto, ma il suo stomaco era così vuoto che non le uscì nulla, se non un po' di acido.
Con la gola che bruciava, la Contessa si ricordò di come non avesse messo nulla sotto i denti dalla sera prima di partire alla volta di San Pietro. Forse anche per quello si sentiva debole.
Si coricò sull'erba, gli occhi rivolti al cielo plumbeo e cercò di mettere a fuoco quello che le si agitava nel petto. Aveva perso l'uomo che amava, quello che, arrivato a casa sua per puro scherzo del destino, era riuscito a strapparla dal baratro in cui si stava lasciando cadere. Anzi, in cui era già scivolata. L'aveva presa di peso e l'aveva riportata su. E ora l'aveva lasciata sola.
Una rabbia improvvisa, non rivolta a Giovanni, ma al destino perfido che glielo aveva fatto trovare per poi portarglielo via tanto presto, la inondò come un fiume in piena.
Incapace di trattenersi e volendo sfogare la propria ira in qualche modo, la Tigre recuperò la spada che portava al fianco – che aveva con sè fin dalla partenza, in caso avesse avuto bisogno di difendersi lungo il tragitto – e senza un piano preciso cominciò a tirare fendenti prima all'aria e poi ai tronchi degli alberi.
Il cavallo si spostò un po', ma senza andarsene, benché il rumore secco dei colpi sul legno e le grida disarticolate della Sforza avrebbero saputo spaventare animali più coraggiosi di lui.
La donna andò avanti per parecchio tempo a colpire le piante che si trovava dinnanzi, immaginando che i tronchi chiari diventassero tutti quelli che l'avevano ferita in qualche modo: Lorenzo Medici e poi Girolamo Riario e poi Ottaviano, suo figlio, e poi il papa e gli Orsi, e i Marcobelli e i gli Orcioli e Lampugnani e di nuovo Lorenzo...
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Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)
Ficción histórica(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Duca di Milano e di una delle sue amanti, Lucrezia Landriani. Dopo un'infanzia abbastanza serena trascorsa quasi per intero tra le mura del...