Giovanni attraversò il ponte levatoio abbassato di Ravaldino con il cuore in gola. Il Capitano Mongardini aveva detto che l'avrebbe scortato di persona fino alla rocca e così aveva fatto.
Erano passati per le vie della città in silenzio e il Popolano non aveva potuto evitare di vedere i segni dell'epidemia che aveva colpito Forlì fin nel profondo. Si sentivano persone piangere e gemere, molte finestre erano chiuse, le porte delle botteghe erano sbarrate e in strada non c'era praticamente nessuno, se non qualche mendicante.
"Ho pensato che doveste saperlo, prima di vederla." fece Mongardini, che aveva appena messo a parte Giovanni della morte di Livio e Lucrezia.
Il fiorentino annuì e, con l'andatura un po' claudicante, confermò: "Sì, avete fatto bene."
"La troverete nello studiolo del castellano. Ha detto che vi aspetta lì." concluse il soldato, fermandosi quasi di colpo non appena furono entro il perimetro della rocca.
A quel punto l'ambasciatore guardò un attimo alle sue spalle. Le sue guardie li avevano seguiti fino a Ravaldino e stavano già prendendo accordi con uno degli armigeri della rocca, forse per sapere dove alloggiare in un momento tanto delicato.
Prendendo una profonda boccata d'aria, Giovanni si passò una mano sul petto, nel tentativo di calmarsi un po' e poi andò verso lo studiolo in cui la Contessa lo stava aspettando.
La porta era chiusa. Per un istante il fiorentino esitò. Non sapeva se fosse o meno il caso di bussare.
Non sapeva cosa avrebbe trovato di preciso dall'altra parte. Già il fatto che la Tigre avesse detto di volerlo incontrare subito lo aveva un attimo spiazzato.
Malgrado le parole che si erano scambiati la sera prima della sua partenza, Giovanni non era ancora sicuro che quella donna lo considerasse più di quanto non avrebbe considerato un qualunque dignitario straniero.
Si passò la lingua sulle labbra secche e si trovò a pensare ai suoi abiti impolverati e allo stato pietoso in cui il viaggio doveva aver ridotto i suoi capelli e la sua faccia e pensò che avrebbe fatto meglio prima a darsi una rassettata.
Ma non aveva altro tempo da perdere. Recuperò in fretta il buon senso, dicendosi che quelli erano solo dettagli e che non avrebbero avuto peso. Non era mai stato un uomo vanitoso, dunque non era il caso di cominciare a esserlo proprio in un simile frangente.
Così aprì la porta, lento, come non volendo disturbare.
Lo studiolo del castellano appariva sospeso nel tempo e nello spazio. La luce fresca e tenera del sole appena sorto si stava facendo largo attraverso i vetri della finestra e un paio di candele erano ancora accese sopra al bordo del camino, a segno della notte ancora non del tutto passata.
Giovanni trovò Caterina immobile, in piedi davanti a lui, nel centro della stanza.
Si guardarono a lungo e nessuno dei due riuscì ad aprire bocca.
Il Popolano aveva nella mente tutta una serie di frasi che avrebbe voluto dire, di conforto e di sostegno, ma non riusciva neppure a schiudere le labbra, figurarsi fare dei discorsi.
Riusciva solo a guardare il viso scavato e stanco della donna che aveva dinnanzi e il dolore che traspariva dai suoi occhi. Era così intenso che egli stesso avvertì una fitta profonda all'altezza del cuore.
Caterina avrebbe voluto dire qualcosa. Qualunque cosa, tanto per non restarsene lì in silenzio a fissarlo, ma non ci riusciva.
Alla fine, l'unica cosa che fu in grado di fare fu muoversi verso di lui e tuffarsi nel suo abbraccio.
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Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)
Ficção Histórica(Troverete le prime due parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Duca di Milano e di una delle sue amanti, Lucrezia Landriani. Dopo un'infanzia abbastanza serena trascorsa quasi per intero tra le mura del...