Capitolo 414: Diem noctis expectatione perdunt, noctem lucis metu

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Quella che doveva essere solo una scaramuccia si stava trasformando in uno scontro all'ultimo sangue.

Dionigi Naldi, con i suoi trentatré anni che ne facevano un uomo nel pieno delle forze, sentiva di essere prossimo ad arrendersi, per quanto era provato.

I veneziani che aveva attaccato parevano infervorati da un fuoco sacro che li rendeva strenui avversari, tanto che, dopo un primo lungo impatto di cavalleria, ormai la battaglia si era trasformata in un combattimento quasi del tutto all'arma bianca, dove gli uomini della Serenissima e quelli di Ottaviano Manfredi – comandati quel giorno dal suo secondo, Naldi – si dimostravano capacissimi di uccidere anche senza bisogno di spade e lance.

La polvere che si sollevava dal terreno secco rendeva quasi impossibile capire chi fosse dove e gli schieramenti si erano mischiati tanto da creare una confusione degna di una rissa da osteria.

'Questa – pensò Naldi, in un lampo di lucida ironia – sarebbe stata la scaramuccia giusta per Manfredi...'.

Quando ancora le labbra erano increspate da un breve sorriso, Dionigi sentì un colpo alla schiena, un calcio, forse, e si voltò, per prendere un forte pugno sul naso.

Accecato dal male, le mani al volto, si piegò su se stesso, abbassando per un momento la guardia.

Quando ritrovò un po' di lucidità, cominciò a mulinare le braccia cariche di ferro e colpì con violenza quello che aveva osato prenderlo a pugni. Quando lo vide crollare in terra su un altro cadavere, il viso completamente irriconoscibile, si sentì soddisfatto.

La nebbia di guerra si stava lentamente rarefacendo. Qualche manipolo di soldati veneziani forse stava scappando e, comunque, i morti a terra cominciavano a essere parecchi e quindi quelli intenti a lottare erano sempre meno.

Naldi cercò di recuperare i suoi e, mentre lo faceva, trovò in terra una balestra ancora carica e la imbracciò, per sicurezza.

Nel frattempo, Benedetto Macarone, faentino come Dionigi, stava rientrando da un breve inseguimento fatto ai danni del veneziano Giovanni Gradenigo, che guidava gli ultimi Serenissimi rimasti ancora in sella.

Nel tornare verso il centro del campo, notò che lo scontro si stava via via spegnendo e così, in barba alla prudenza, si fece meno accorto e alzò la celata dell'elmo per respirare un po', abbassando anche lo scudo.

Cambiò atteggiamento quando vide il suo amico fraterno Dionigi Naldi intento a raggruppare i suoi per dare un ultimo assalto ai veneziani rimasti.

Guidò i suoi, arrivando a tergo dell'altro faentino, convinto che piombare sul nemico in corsa sarebbe stata una mossa vincente.

Naldi, gli occhi ancora acquosi per il naso rotto, sentì delle urla alle spalle e, temendo l'arrivo dei soccorsi veneziani, si voltò subito a vedere di chi si trattasse.

Un gruppo abbastanza numeroso di uomini stava avanzando di gran passo verso di loro. Dionigi li vedeva confusamente e non riconosceva i colori che portavano, ma, il fatto che apparissero tanto freschi rinfrancò in lui la convinzione che si trattasse dei rinforzi della Serenissima.

Tenendo con forza la balestra tra le mani, colpendo quasi alla cieca, fece partire la freccia che era stata caricata chissà da chi e attese di vedere se qualcuno dei nemici sarebbe caduto in terra morto.

La punta acuminata del dardo trovò strada facile nel volto di Macarone, rimasto privo della protezione della celata, trapassandogli il cranio da parte a parte.

"No! Giovanni!" gridò quello che gli stava accanto, sorreggendolo mentre rovinava in terra senza vita.

Quell'urlo e la voce che l'aveva prodotto fecero gelare il sangue nelle vene a Naldi che, già sapendo quello che era successo, si mise a correre verso quelli che aveva creduto, fino a pochi istanti prima, dei nemici.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora