Cap 325:Gli strateghi vittoriosi han già trionfato, ancor prima di dar battaglia

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I lavori al mastio stavano rallentando, soprattutto per colpa della neve e anche perché gli operai iniziavano a sentire aria di festa.

Quell'anno, a differenza di quello passato, la Contessa non aveva messo alcun veto circa le festività natalizie. Ormai il Barone Feo era morto da ben oltre un anno e dunque sembrava lecito tornare, anche se in forma ridotta, alla vita di prima.

A Ravaldino non erano previsti grandi banchetti né feste sontuose, ma la Tigre aveva fatto sapere ai suoi collaboratori più stretti che ci sarebbe comunque stata una cena, dopo la Messa, alla quale sarebbe anche seguito un ballo.

Giovanni aveva udito la notizia per via traversa, ma non si era risentito troppo, anche se avrebbe preferito saperlo direttamente da Caterina.

Vivendo alla rocca, il Popolano era pressoché certo che l'invito fosse esteso anche a lui, tuttavia, quel pomeriggio, sentì il bisogno di chiarire la questione e si mise a cercare la Contessa in lungo e in largo.

Sapeva che Simone le aveva parlato, prima di partire per Imola. Non sapeva cosa si fossero detti, ma aveva il sospetto che suo cugino le avesse riferito non solo quello che stava accadendo a Firenze, ma anche dei malumori che serpeggiavano nella Signoria.

Se un certo Machiavelli, infatti, aveva avuto il coraggio di cominciare a scrivere a suoi corrispondenti personali a riguardo delle pecche di Savonarola, tutti gli altri fiorentini sembravano essersi improvvisamente resi succubi del tetro domenicano e si stavano armando per distruggere tutto ciò che potesse rappresentare la vecchia Firenze, la Firenze dell'arte, la Firenze della bellezza, la Firenze della cultura. In poche parole, la Firenze dei Medici.

Questa precarietà andava a rendere la posizione di Giovanni ancora più delicata di quanto già non fosse di suo.

Come se non bastasse, Simone era stato molto categorico nello spiegargli che le spese folli che aveva appena fatto per compiacere la Tigre di Forlì non sarebbero state ben viste da Lorenzo, non appena ne fosse venuto a conoscenza.

In più, il quasi totale disinteresse che il Popolano più giovane stava dimostrando per la richiesta della Signoria di comprare del grano in Romagna per Firenze avrebbe di certo finito per dare il pretesto al Gonfaloniere di Giustizia per farlo richiamare in patria.

Così l'ambasciatore fiorentino era attanagliato da tutte quelle preoccupazioni, senza vedere come potesse migliorare la propria condizione senza per questo rinunciare alla vicinanza di Caterina. Era certo che, se avesse cominciato a comportarsi davvero come emissario di Firenze, avrebbe dovuto assentarsi spesso e a lungo da Forlì e, soprattutto, mostrarsi molto meno accomodante e amichevole  con quella strana donna.

Stringendo le spalle nel giubbone rosso e giallo con lo stemma della sua famiglia ricamato sul dorso, Giovanni arrivò fin al cortile d'addestramento, ma si accorse subito che la Tigre non era lì.

Galeazzo, assieme al maestro d'armi e al piccolo Bernardino, stava provando qualche complicata mossa di scherma, ma Caterina non era con loro a vedere i progressi del suo erede designato.

Abbattuto, pensando che forse la donna fosse uscita a caccia da sola all'alba, il fiorentino sollevò lo sguardo, strizzando gli occhi per proteggerli dai fiocchi di neve che cadevano incerti dal cielo pallido, e finalmente la vide, affacciata a una delle finestre, che guardava giù.

La Tigre si accorse di essere stata notata, così ricambiò l'occhiata del Medici con un breve cenno del capo e poi andò avanti a fissare suo figlio Galeazzo che aveva appena imparato la parata con due mani.

Il Popolano rientrò in fretta e salì le scale fino ad arrivare alla finestra a cui stava la Contessa.

"Ci avrei scommesso che sareste salito..." disse piano Caterina, continuando a sporgersi per guardare Galeazzo e Bernardino.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (parte III)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora